Anche questa volta, attraverso il racconto di una storia ambientata in un altro tempo Steven Spielberg ci parla del mondo di oggi. The Post, narrando il processo decisionale che portò alla pubblicazione dei Pentagon Papers sul “Washington Post” di Katharine Graham, descrive il clima americano durante il periodo della guerra nel Vietnam ma ci illustra, in controluce, anche il contesto mediatico di oggi, trasformando una vicenda storica in una riflessione sul potere: politico e degli organi di stampa, certo, ma anche il potere che ha l’essere umano di cambiare il corso della Storia.
Ora che “sono finiti i tempi in cui stampa e politica erano alleati”, i media di massa devono avere il ruolo non solo di garanti dei fondamentali diritti civili della popolazione (in primis il diritto alla libertà di parola e di stampa affermato, nella Costituzione americana, dal Primo emendamento) ma anche di controllori del potere. The Post è un acuto aggiornamento di quel “chi custodirà i custodi?” problematizzato da Giovenale (VI Satira) e poi da Platone (La Repubblica) e che oggi identifica, nelle parole di Tom Hanks alias Ben Bradlee (il capo redattore del “Post”), i giornalisti e tutti gli organi di stampa come “custodi del potere”.
Il trentunesimo film di Spielberg è una nuova dichiarazione d’amore alla grandezza dell’essere umano ed ha il valore aggiunto − in un periodo in cui si moltiplicano i casi Weinstein e in cui assistiamo a una rinnovata attenzione femminista al ruolo sociale della donna con i movimenti #MeToo, Time’s Up o il nostrano Dissenso comune − di eleggere ad eroe un personaggio femminile che nella magistrale interpretazione di Meryl Streep riesce a passare da una situazione di confusione e subordinazione psicologica a una determinazione e una solidità imprevedibili.
La regia rende straordinariamente questa dinamica evoluzione attraverso un’eccellente gestione degli ambienti e una sensibile valorizzazione degli attori. Se seguiamo lo sguardo di Spielberg a partire dal modo in cui inquadra i dettagli degli oggetti o delle azioni (come l’apertura delle scatole contenenti i Papers) elevandoli cinematograficamente a parte essenziale della visione e della narrazione del film, per poi allargare lo sguardo sui corpi attoriali, sui gruppi di personaggi, sulle stanze di volta in volta claustrofobiche o immense, fino a osservare da fuori i personaggi presenti nelle stanze (segnatamente, il Presidente Nixon mentre parla al telefono), ribadendo così una certa inaccessibilità al potere subito contraddetta dalla sequenza finale, non possiamo non restare ammirati dalla padronanza tecnica del linguaggio cinematografico e dall’asservimento di quest’ultimo a una precisa idea di cinema.
Sul piano acustico, la colonna sonora di John Williams (qui alla ventottesima collaborazione col regista di Lincoln), descrive perfettamente i vari passaggi narrativi e psicologici, con un’alternanza tra classici brani orchestrali à la Williams e composizioni di musica elettronica che rende perfettamente, ad esempio, l’eccitazione e la distensione durante e dopo la decisione di Katharine, che culmina nel suono delle rotative avviate alla stampa.
A livello visivo poi, le evoluzioni della macchina da presa intorno a Meryl Streep non sono espressione di gigionismo esibizionista bensì trasferimento sul medium (che diviene allora messaggio) di uno stato mentale. Come i movimenti di allontanamento dal suo corpo e di avvicinamento alle sue labbra, i girotondi spiazzanti e destabilizzanti durante i momenti chiave del film attuano una vera e propria coincidenza di forma e contenuto. Quando Katharine esce dalla Corte Suprema è al contempo ignorata dallo sguardo maschile e praticamente avvolta dall’ammirazione femminile. La sua vicenda è anche la lotta di una donna in un mondo di uomini che la ritengono inadeguata e dimostra che una concezione del potere secondo un’ottica di genere non è legge scolpita nel marmo.
In momenti come questo forse è necessario che il cinema stesso ce lo ricordi.