"Mi contraddico?
Molto bene, allora, mi contraddico,
sono vasto, contengo moltitudini".
È davvero difficile scrivere del nuovo film di Darren Aronofsky cercando di mantenere intatto il senso di angoscia, commozione e meraviglia che custodisce. Qualcuno che ha già visto The Whale a Venezia 79, qualcuno dalla corazza più coriacea della mia potrebbe anche storcere il naso leggendo queste parole. Del resto, e me ne rendo perfettamente conto, tutto ciò che ci è concesso è mettere nero su bianco un “ritaglio di senso”, uno sguardo il più possibile supportato da strumenti che contestualizzino quella che resta l’illusione per eccellenza. Ma è proprio questo il bello del cinema: per quanto studiato, sezionato, rincorso, sarà sempre irrimediabilmente subordinato alle passioni.
Ed è qui che rischia di nascere l’equivoco rispetto a un eventuale conflitto di opinioni: The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.
Charlie è un insegnante di Inglese. Affetto da una gravissima forma di obesità, vive recluso in un piccolo appartamento di Moscow (Idaho), dove tiene lezioni online e affoga i suoi rimpianti, i suoi traumi e le sue personalissime tragedie in una fame compulsiva che sa di consapevole autodistruzione. L’occhio al buco della serratura spia cinque giorni della vita di Charlie, cinque personaggi che orbitano attorno al suo corpo e che compongono la sua storia, la storia del suo dolore e del dolore che a sua volta ha causato.
In The Whale, la pièce di Samuel D. Hunter incontra magistralmente le ossessioni visive di Aronofsky che — a cinque anni di distanza da Madre! — torna a concentrare le forze drammaturgiche nella dimensione domestica, riducendo ancora di più lo spazio di manovra registica e dei soggetti coinvolti. Passato, presente e futuro si scontrano e rimbalzano sulle pareti dell’appartamento attraverso urla, risate, pianti, bugie, confessioni. Ma The Whale è anche un lavoro che arriva sulla coda lunga dell’emergenza pandemica e del lockdown, costringendoci a sovrapporre diversi piani di lettura possibili. Una morsa familiare che rimanda alla comedy of menace di Harold Pinter ma che, nel stringere le proprie spire, cerca disperatamente di trovare modi per ri-connettersi all’altro e tenere una lucina accesa sul davanzale dell’incomunicabilità.
È per questo desiderio fortissimo di inseguire a tutti i costi quella luce che Brendan Fraser risulta la scelta perfetta per vestire i panni di Charlie, restituendo la performance migliore della sua carriera. Ciò accade principalmente perché Fraser (a prescindere dal vissuto doloroso che un ritorno in scena tanto importante richiama alla mente dei cinefili) sceglie di non cavalcare convenientemente la tetraggine, ma di esaltare i tratti meno cupi del personaggio. Brendan Fraser impara a navigare (letteralmente) la messa in scena attraverso una prova potentissima, che fa della fisicità un luogo più oscuro del suo appartamento. Ma se il corpo è una trappola, il suo animo è il vero strumento capace di squarciare gli aspetti disforici dell’opera.
La potenza dell’attore non risiede solo nel realismo fisico dell’interpretazione, ma soprattutto nella capacità di raccontare la storia di un decadimento con una sofferenza gentile. Il Charlie di Brendan Fraser non è una persona “buona” (e men che meno “cattiva”), ma piuttosto un insieme di toni grigi, come i personaggi che lo circondano: l’amica infermiera Liz (Hong Chau), la figlia Ellie (Sadie Sink), il “missionario” Thomas (Ty Simpkins), l’ex moglie Mary (Samantha Morton) e persino l’evanescente fattorino delle pizze. Non esistono scorciatoie per Charlie, che cerca disperatamente un contatto emotivo con l’impenetrabile figlia Ellie nelle sue ore più buie, ma nemmeno per le persone della sua vita. E quando sembra che nessuno possa davvero salvare l’altro, la domanda che resta incisa nel cuore dello spettatore è una sola: “Hai mai la sensazione che le persone siano incapaci di non tenere agli altri?”.
È già accaduto in questa edizione della Mostra del Cinema che la prospettiva della morte diventasse metafora di ricerca, espiazione e nuove consapevolezze. L’abbiamo visto in White Noise di Baumbach e soprattutto in Bardo di Iñárritu: prepararsi idealmente alla fine è esso stesso atto di transizione e rinascita. Alla stregua di The Wrestler e Black Swan, che usavano i limiti e le possibilità del corpo come strumenti propulsori di trasformazione interiore, Aronofsky compone la sua riflessione sul tema offrendo uno spunto spiazzante e incredibilmente ravvicinato rispetto al passato. In un periodo in cui tutti sembrano portati ad abbracciare il proprio lato più cinico, smettere di lottare contro la visione d’amore di Charlie è un atto che può ispirare un cambiamento inatteso e profondo per “attraversare il Bardo” e uscire dal limbo del proprio dolore.
Come in Song of Myself di Walt Whitman, Charlie "aspetta sulla soglia della porta". Ma se i suoi errori sono ben riconoscibili, il desiderio spasmodico di umanità e sincerità è la sua vera dipendenza, più incontenibile della fame. In quanto professore, non gli resta che aggrapparsi alle parole, come quelle di un tema su Moby Dick letto e riletto ad alta voce: impietoso, feroce, ma incredibilmente autentico. Perché se il corpo è stretto dalle catene della mente, "un cuore, un cuore affranto, si cura con l’udito".
"Parlerai prima che me ne vada? O quando sarà troppo tardi?".