A sancire il valore e il fascino di Quando eravamo re, opera di Leon Gast che ripercorre passo dopo passo i prodromi e lo svolgimento della leggendaria sfida Alì-Foreman di Kinshasa (alias, The Rumble in the Jungle), non è solo l’attribuzione del premio cinematografico più celebre (l'Oscar), ma il suo raccontare una vicenda a metà tra sport ed epica. Per provocare, si potrebbe tirare un ballo un paragone omerico e affermare che, se l’incontro del ’74 fu Iliade, la genesi del suo documentario costituì un’odissea per il suo autore.

L’avvicinamento tra Leon Gast e l’incontro del secolo risultò del tutto casuale: con alle spalle una sola esperienza di regia, nell’ambito del documentario musicale (Our Latin Thing), il regista del New Jersey arrivò nella capitale dello Zaire con l’intento di seguire il festival che avrebbe visto esibirsi James Brown, BB King, Crusaders, Spinners, Manu Dibango, Miriam Makeba ed altri artisti locali. La tre-giorni musicale, nota come Zaire ’74, era stata architettata dal rampante Don King, eminenza grigia e organizzatore della sfida pugilistica: sullo sfondo, l’inquietante figura del dittatore Mobutu, l’unico capo di Stato nel mondo che aveva accettato di sobbarcarsi il pagamento di una cifra così ingente (il compenso per Alì e Foreman ammontava a 5 milioni cadauno), con l’intenzione mirata di dare lustro internazionale al regime. L’imprevisto inatteso fu costituito dal taglio sull’arcata sopraccigliare che Foreman rimediò a pochi giorni dall’incontro, causandone la posticipazione di sei settimane e – di conseguenza – garantendo a Gast di poter essere presente per le riprese: il risultato furono 400 ore di girato. Eppure, malgrado il fragore mediatico che scaturì dall’inaspettata vittoria di Alì, a nessun produttore venne in mente di investire nel materiale raccolto. È a questo punto che iniziò l’odissea personale del suo autore, con tempistiche simili a quella canonica: passarono dodici anni prima di riuscire a trovare produttori interessati, altri otto per arrivare a un montaggio e due per vederlo distribuito.

Inaspettatamente, Quando eravamo re ottenne il premio dell’Academy; allo stesso modo, 22 anni prima, Alì era riuscito a smentire ogni pronostico, di fronte ai sessantamila fortunati dello Stade Tata Raphael e un miliardo di telespettatori sbalorditi. Non serve soffermarsi sul perché quell’incontro abbia preso un posto nell’olimpo sportivo: l’imprevedibile strategia portata sul ring dal fu Cassius Clay, unita alla narrativa del David contro Golia (Foreman era più giovane di sette anni, aveva surclassato con facilità Frazier e fisicamente sembrava inarrestabile), risulta sufficiente per giustificare ciò. Tuttavia, se il documentario di Gast avesse semplicemente catturato gli otto round del combattimento, forse avrebbe attirato solo l’attenzione degli amanti del pugilato e dello sport; invece, sono proprio le immagini dell’avvicinamento alla sfida a dare giustizia alla fenomenalità comunicativa di Alì, la cui figura non può non monopolizzare tutta la narrazione. Impertinente e provocatorio quando si tratta di duellare – anche solo verbalmente – con Foreman, a metà tra l’istrionico e il politico nell’assicurarsi il sostegno incondizionato del pubblico di casa, è “The Greatest” ad egemonizzare il film, sospingendolo talora verso l’ambito comico e talora verso quello tragico, regolandone a piacimento il livello di suspense.

Potrebbe essere l’Iliade personale di Muhammad Alì, si diceva: del resto, i temi del ritiro dal combattimento e dello scontro politico con un monarca che non ne riconosce i meriti compaiono anche qui. Potrebbe, ma così non è, dal momento che manca il carisma e l’approfondimento psicologico del suo Ettore: al laconico Foreman, poco disposto ad entrare nel ring dello scontro comunicativo con Alì, viene affidato nel film un ruolo quasi da comprimario, da antagonista silente e spersonalizzato. In sostanza, è lo stesso pugile di Louisville a ricoprire il duplice ruolo da protagonista e antagonista: più che domandarsi cosa vi sia dietro le reticenze verbali del suo avversario, appare più interessante soffermarsi sullo scarto tra la spacconeria dialettica di Alì e i suoi momenti di tensione, dati dalla consapevolezza di essere – lui, la personalità sportiva più in vista dell’epoca – un underdog. I pochi minuti immediatamente precedenti all’incontro, in cui riesce a convertire uno spogliatoio che “sembrava un obitorio” in una cerchia di fedeli oltranzisti, ne restituiscono il carisma; la contraddizione tra sbruffonerie e sensibilità, invece, danno la cifra della complessità della persona che ha abitato il personaggio-Alì.