Tre piani è un film di Nanni Moretti con Margherita Buy. In questa frase c'è già quasi tutto quello che occorre sapere. Ed è infatti assolutamente un film di Nanni Moretti: converrà ribadirlo una seconda volta per aiutare gli spettatori più increduli, che non troveranno qui alcuna buffa e rassicurante idiosincrasia del regista, nessun dialogo brillante, nessun pasticcere trotzkista, nessuna ironia e nemmeno un personaggio come quello di John Turturro che nella sua pellicola precedente consentiva, pur nel dramma, alcuni momenti di leggerezza.

Ma è anche e forse sopratutto un film con Margherita Buy, attrice amatissima da Moretti, qui al suo quarto film col regista, che mentre la incastra in un ruolo difficilissimo, le regala alcuni sorrisi (gli unici del film) tra i più belli che il regista abbia mai filmato e forse anche per questo, fra i più importanti e decisivi per comprendere a pieno l'intera pellicola.

Tre Piani (che mantiene il titolo originale dal romanzo Eshkol Nevo da cui è tratto) e tre storie che si intersecano e che si svolgono a partire da una palazzina che le racchiude. Tre istanze psichiche come le definisce la psicanalisi classica di stampo freudiano, Io, Es e Super Io che in qualche modo trovano una caratterizzazione nelle storie di tre famiglie.

Al primo piano della palazzina, la storia di un padre, Riccardo Scamarcio, ossessionato dal dubbio che l'anziano vicino di casa, che soffre di demenza senile, possa aver abusato della figlia. Salendo troviamo la vicenda di una madre, Alba Rohrwacher, lasciata troppo sola dal marito sempre in viaggio di lavoro, a far crescere la loro figlia. Una storia di solitudine e progressivo scollamento dal reale. All'ultimo piano, un magistrato, lo stesso Moretti, in perenne conflitto col figlio che non vuole assumersi la responsabilità di un reato gravissimo di cui si è reso protagonista.

Storie che il regista sceglie di narrare con dei salti temporali progressivi di cinque anni, per dare ossigeno e prospettiva ad una narrazione che forse rischiava l'asfissia, immobile nella propria disperazione. Con lo scarto temporale Moretti permette uno sguardo in avanti e consente di spostare l'attenzione su quello che realmente sembra interessargli: i figli. Le nuove generazioni, il futuro.
Tutto il film infatti riprende quella che è un po' una costante del suo cinema, sia quando ancora si sentiva un figlio, nella prima parte della sua carriera, sia nella seconda, nella quale si sente sopratutto un padre, ovvero il lascito, la responsabilità morale verso chi verrà dopo.

Ai figli resta il difficile compito semmai di ritrovare, ricostruire, rileggere e riannodare i fili dei rapporti con i genitori, con i loro conflitti interni, le loro complessità e incomprensioni, per poter guardare con una ritrovata libertà verso il futuro. Sarà infatti la figlia di Scamarcio, a distanza di anni a far sciogliere il padre in lacrime, in un bellissimo abbraccio liberatorio. E sempre alla figlia della Rohrwacher spetterà il compito di continuare a vedere la madre, di aspettarla e di non perderla di vista pur nell'assenza. E così anche al figlio del magistrato Moretti, quello di trovare un equilibrio fra l'insostenibile legge morale imposta dal padre che ne ha causato l'allontanamento e la possibilità di assumersi una responsabilità evitata per troppi anni, recuperando al contempo forse, anche il rapporto con la madre.

Con Tre piani siamo di fronte anche a un ulteriore passo avanti di Moretti nella sua indagine psicoanalitica dei rapporti umani, fin qui mai così teorica. Che il suo cinema giochi da sempre un corpo a corpo piuttosto serrato con la psicoanalisi non è certamente un novità, che questa indagine venga estrinsecata teatralmente in un lavoro di scarnificazione della drammaturgia, lavorando per sottrazione sulle sovrastrutture della recitazione, ragionando a fondo sul complesso rapporto fra personaggio e identità, è invece un percorso critico sul suo cinema ancora molto aperto, su cui ancora tanto ci sarà da lavorare e approfondire.

Paradigmatico in questo senso il ruolo che Moretti riserva qui per se stesso, il più odioso della sua carriera (nella quale ha impersonato anche Berlusconi, quindi vi lascio immaginare) perché si tratta di un personaggio glaciale, freddo, censorio, guidato da un senso di giustizia che prevarica ogni umanità e ogni comprensione, fino al punto di mettere al bando un figlio, allontanandolo per sempre dalla propria vita.

La sua interpretazione è senza intonazioni, quasi atonale, un saggio di anti-immedesimazione verrebbe da definirlo. Il suo ruolo è infatti essenzialmente quello di rappresentare la pura istanza psichica del Super Io e non ha quasi un valore drammaturgico. Certamente interviene nella narrazione, la influenza, ma quasi non ne prende parte se non tangenzialmente, è l'elemento che tiene a distanza una madre e un figlio, è l'ostacolo che entrambi devono superare per poter pensare di ritrovarsi. Terribile e decisivo il suo gesto di registrare il messaggio della segreteria telefonica sopra quello del figlio.

Ma sarà proprio attraverso quell'antico strumento di registrazione della voce (che si usa per colmare una assenza), che potrà avvenire per Dora, Margherita Buy, la moglie di Moretti nel film, l'elaborazione di un lutto, di una distanza, di una separazione. Una sorta di diario, di confessione intima, di dialogo con se stessa attraverso una segreteria telefonica, che permette finalmente una apertura alla vita e ai suoi colori, come quelli di un vestito, finalmente indossato con una gioiosa leggerezza.

Lo sguardo che apre alle relazioni, che ha fiducia nel mondo, che guarda a domani (come nello struggente finale di Mia madre). Ed ecco Moretti. Quello che tanti delusi hanno cercato in questo film senza trovarlo. Quel Moretti “prima maniera”, inspiegabilmente cambiato a occhi troppo miopi per problematizzare una raffinatissima poetica che semplicemente segue la mutazione della vita, interrogandosi in modo sempre nuovo sulla realtà che racconta senza mai far venire meno l'urgenza di raccontarla, cosa assai rara da percepire in tanto cinema.

Eccolo qui dunque. Lo cercavate semplicemente nel posto sbagliato: credevate di trovarlo nei morettismi e invece Nanni era lì che vi aspettava, negli occhi e nel sorriso finale di Margherita Buy.