Due genitori si interrogano su come comportarsi verso il figlio che ha commesso un grave reato, una novella madre nella solitudine comincia a dubitare della propria sanità mentale, un padre si corrode nel sospetto di un abuso sulla figlia da parte di un anziano vicino. Tre piani: sono quelli di un condominio, che danno il titolo alle tre storie che si dipanano in un acclamato romanzo di Eshkol Nevo, ma anche quelli temporali utilizzati da Nanni Moretti per l'adattamento nel proprio film omonimo.

Molto stupore ha suscitato il fatto che Moretti per la prima volta si sia dedicato a un'opera esistente invece che a una sceneggiatura originale di suo pugno, quando invece ciò pare del tutto coerente con quel senso di incertezza morale e quell'allargamento delle possibili verità concepibili che stanno al centro di tutti i suoi ultimi lavori. Tanto che se per Nevo i tre piani e le tre storie corrispondevano alle istanze freudiane di Io, Es e Super-Io, tenendosi in bilico fra conflitto introspettivo e analisi sociale, il cineasta vira decisamente nella seconda direzione dedicandosi ai dilemmi morali in seno alla borghesia odierna, portandola da Israele all'Italia.

E se il romanzo nasceva per essere emotivamente avvolgente, utilizzando la prospettiva di un solo personaggio per ogni racconto, Moretti decide di descrivere la realtà da una (equi)distanza raggelata dalle ragioni di ognuno, quasi fosse un novello Balzac o Flaubert. Ne esce fuori un film corale di quelli che non gli capitavano da molto tempo, e però paradossalmente proprio agli antipodi delle sue creature degli inizi, nelle quali la sua figura sullo schermo fungeva da fulcro nevralgico del giudizio su ogni cosa, Sibilla Cumana delle ottime intenzioni e pessime frustrazioni dei suoi coevi.

Moretti si è fatto nel tempo sempre più dubitativo sul senso delle cose, più incerto su cosa si debba affermare. Tanti cominciano a rimproverargli di star perdendo la sua cifra stilistica, di non aver più nulla di peculiare da dire, quando pare piuttosto si stia facendo solo meno idiosincratico. Certo non gli fanno difetto alcune piccole ossessioni, per cui in inevitabile assenza di un Michele Apicella (e si badi bene che, anche nello scorso Mia madre, Margherita Buy era in fondo ancora un Michele Apicella al femminile), resta il vezzo di ribattezzare Andrea il figlio che dà dei pensieri, proprio come quello de La stanza del figlio.

Sta di fatto però che nell'essenza Tre piani è un film di punti di vista, di fuggevolezza di cosa sia giusto e vero, ben distante dal primato morale che domina buona parte del corpus della filmografia morettiana. Che poi queste differenti prospettive innestate nel racconto siano quasi invariabilmente generate dalla distanza fra generazioni – con Moretti che sceglie per sé proprio il ruolo del genitore più distante dal proprio figlio – rimanda alla dimensione personale di vita dell'autore, che si è definito “più fragile” con l'età, almeno quanto alla sua capacità conclamata di leggere in controluce i temi forti della contemporaneità. Dunque può stupire, ma a ben pensarci forse neppure troppo, che proprio colui che si era posto in origine come il personaggio di rottura delle tradizioni e convenzioni italiane si sia ormai avviato a diventare nel XXI secolo il più disinvolto cantore del grande romanzo borghese nostrano.

Curioso piuttosto che Tre piani, nel restituirci un Moretti perfettamente in controllo delle sue intenzioni comunicative, finisca per risultare anche una sorta di compendio dei suoi limiti registici. Moretti notoriamente non è mai stato un grande direttore d'attori ma, in un film con molti interpreti come questo, la sensazione di mancanza di omogeneità e approccio si moltiplica. Gli scopriamo poi una prevedibile goffaggine nella direzione delle sequenze d'azione di massa (l'assalto della folla al centro nel quale Margherita Buy sta facendo una donazione), che ai fini della sua poetica potremmo però definire non sostanziale.

Ma una scena di seduzione, fondamentale per una delle storyline e l'intero film, si sarebbe molto giovata di un taglio di gran lunga precedente la consumazione dell'amplesso: la scrittura dei personaggi femminili non è mai stata la cifra di Moretti, al di là di una fascinosa misteriosità, e la sua cerebralità non lo rende il più adatto al racconto della sessualità, ma la combinazione dei due elementi finisce per generare una ferale inverosimiglianza ai limiti del ridicolo. Vorremmo dire del cringe, ma una voce interiore ci grida: “Ma come parla!” e perciò soprassediamo.