Guardare la storia del cinema italiano contemporaneo è osservare gli ultimi atti di un naufragio: gemme come Alaska di Cupellini e Dogman di Garrone affiorano a fatica dal mare magnum di commedie in cui si susseguono, non senza una certa stanchezza, i volti dei vari Cortellesi, Pieraccioni, e Papaleo. I principali problemi del sistema produttivo nostrano sembrano essere l’alto grado di autoreferenzialità e la scarsa cura che contraddistingue molti prodotti: innumerevoli opere distribuite al di fuori dai circuiti d’essai si limitano ad impilare clichè narrativi sostenuti a fatica da una regia stanca, per la dubbia felicità di un pubblico italiota lento a migrare verso lo streaming. Solo pochi film riescono a superare i confini della penisola e godere delle attenzioni della stampa internazionale, pellicole capaci di superare il provincialismo dei temi e dello stile per dirigersi verso platee più ampie. Alla luce di un discorso simile, la presenza di Troppa grazia all’interno di una finestra sul cinema mondiale come la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes non può che farci rimanere perplessi.                 

Gianni Zanasi è un regista poco prolifico contraddistinto da una forte poetica personale. A partire dal fortunato Non pensarci, da cui è stata ricavata una serie per Fox, Zanasi ha delineato una formula affinata, con le dovute variazioni, di pellicola in pellicola. I suoi film sono storie in cui gli schemi della quotidianità vengono incrinati dall’assurdo, facendo schiudere piccoli miracoli in seno a esistenze grigie. La forma cerca poi di rimanere aggiornata alle mode del cinema internazionale, come le sequenze da videoclip in La felicità è un sistema complesso che riverberano la verve di Mommy, uscito un anno prima. La formula Zanasi vede la propria netta degenerazione in Troppa grazia, che inquina l’opera del regista con tutti i vizi delle produzioni peggiori del cinema italiano. Il crollo comincia con la sinossi, che declina immediatamente la poetica del regista in un camp provinciale: Alba Rohrwacher, madre imbranata e geometra di dubbia competenza, si vede apparire la Madonna in mezzo ai campi della ridente Toscana, che le impone di sabotare la costruzione di un’opera edilizia abusiva.                                                                                                

Se già il retrogusto parrocchiale della premessa lascia perplessi, la sceneggiatura contribuisce ad aggravare i dubbi: risalta l’incredibile povertà della scrittura, che rinuncia ad affrontare la problematica della Fede per concentrarsi sull’ennesimo melò familiare. Elio Germano tenta di riconquistare la Rohrwacher dopo una serie di tradimenti reciproci, ripetendo il liso copione sui separati con figli a carico che ammorba da oltre vent’anni la cinematografia italiana. Faticoso è inoltre non rimanere raggelati dalla meccanicità con cui gli sceneggiatori tirano in mezzo la tecnologia di tutti i giorni: tra Elio Germano che chiede di mandargli “un Whatsapp” e le amare constatazioni di un musicista fallito, che afferma di avere accumulato oltre sessantamila followers sulla propria pagina Facebook da quando ha smesso di suonare, appare chiara la tendenza ad appoggiarsi goffamente a facili luoghi comuni. Non risultano più fortunati i riferimenti all’attualità politica: le strizzate d’occhio al clima di razzismo, dalla Rohrwacher che definisce l’apparizione mariana “una profuga di quelle che si vedono in tv” alle battute di Elio Germano contro i bar dei cinesi, strappano pochi sorrisi e un certo imbarazzo.                                                                                                                                  

Il parco attori del film è composto da collaboratori fidati del regista, con le eccezioni di Germano e la Rohrwacher che sostituiscono Mastandrea nel ruolo principale. Se la figura dinoccolata e le espressioni oblique dell’attore romano erano perfette per veicolare la vena assurdista dei due lungometraggi precedenti, l’interpretazione dell’attrice fiorentina si riconferma naturalmente orientata al drammatico, poco incline ai piccoli guizzi di comicità a cui ci aveva abituato la mimica di Mastandrea. Germano non riesce a correggere il tiro, complici alcuni monologhi dalla scrittura non esattamente emozionante, e, tra le performance pessima del cast secondario spicca in positivo solo Battiston, efficace nei panni del politico che vive e respira la corruzione con un umanissimo misto di naturalezza e imbarazzo.                                                                                                                       

Regia e fotografia appaiono accomunate da una netta mancanza di idee, che si traducono nel riutilizzo delle stesse poche scelte: primi piani in movimento spezzati da un taglio di montaggio e una cruda (e un po' spiacevole) luce arancione. Anche la colonna sonora curata da Niccolò Contessa de I Cani si adagia su una dozzinale selezione di brani di musica straniera, ben lontani dalla ricercatezza del punk rock in Non pensarci.  Alla fine dei 110 suoi minuti, appare chiaro come Troppa grazia sia, tristemente, un valido breviario delle caratteristiche peggiori del cinema italiano contemporaneo, quello che costituisce la gora in cui annaspano i pochi prodotti di qualità: sceneggiatura scontata e anemica dai temi provinciali, casting opinabile, fotografia che giustifica brutti colori con una pretesa di naturalezza, scelte registiche mediocri e una colonna sonora impersonale. Se questo è il cinema italiano che desideriamo esportare, non meravigliamoci se la produzione autoctona fatica a valicare le Alpi.