La Tour Eiffel svetta, fra nuvole plumbee, sulla piazza militare in cui il colonnello Dreyfus, ebreo, è degradato e condannato alla prigionia per alto tradimento alla Francia. Un altro ebreo, Roman Polanski, apre il suo ultimo film, L’ufficiale e la spia, con questa scena, un campo lunghissimo glaciale, fortemente contestualizzante e spietatamente distante. In una parola: storico. Era il 2002 quando Polanski affrontò apertamente e sentimentalmente l’Olocausto con Il pianista, lui che bambino era sfuggito ai nazisti e aveva perso la mamma ad Auschwitz. Diciassette anni dopo, settantacinque anni dopo, torna all’attualità dell’antisemitismo che monta nell’Europa impoverita dalla crisi con un film ambientato a fine ‘800, sul caso di discriminazione razziale che scosse una nazione e molte coscienze, ma non impedì che pochi anni più tardi la Germania compisse il genocidio e la Francia se ne rendesse complice.

“Chi lascia fare e s’accontenta è già un fascista”, ha scritto Pavese. “E un nazista”, aggiunge oggi Polanski. È proprio questo il concetto attorno a cui ruota L’ufficiale e la spia: in coscienza, si possono sacrificare la vita di un uomo e la verità dei fatti all’opportunità politica, al pregiudizio e alla convenienza personale? Picquart, capo dei servizi segreti di Francia, è convinto di no, e nonostante pressioni e usi lassisti consolidati e fomentati dal potere, non è disposto a venir meno a quel che dovere e morale gli impongono. “Non si possono cambiare i fatti”, dice, anche a costo di disobbedire agli ordini ed insubordinarsi, rischiare la propria stessa privilegiata posizione, certi dell’ammonimento eterno di Émile Zola: “quando non si afferma la verità, comincia la decomposizione di una società”. Cento anni dopo, nel caso insabbiato di salute pubblica dell’Insider di Michael Mann, un editoriale del New York Times avrebbe detto la stessa cosa chiamandola “annientamento di una persona”, character assassination. Quella sperimentata non solo dall’agnello sacrificale comodamente prescelto, ma anche da chi ne prende le difese perché persuaso dell’importanza cruciale della realtà dei fatti nella costruzione dei significati socialmente condivisi, e in questo fondativi.

Ebreo o non ebreo, Dreyfus non ha tradito la Francia, e Picquart su questo intende fare luce. Ma tutto è buio e polveroso in L’ufficiale e la spia: le stanze, gli archivi, il suo ufficio dalla finestra rotta, che non lascia entrare aria dalla strada. Faldoni, carte e missive da sminuzzare e ricomporre soffocano Picquart, nel suo lavoro lento e meticoloso, perché così è la verità: faticosa, pesante, difficile. Persino il fruscio dei vestiti, delle lenzuola dei letti, delle dita sulla carta e della carta sui tavoli, gli armadi e i pavimenti che scricchiolano al passaggio dei personaggi restituiscono quel peso, che è quello della verità, senz’altro, ma anche del pregiudizio, che non muore. Picquart da ufficiale libera sì Dreyfus, innocente, ma da ministro non gli concede il grado che gli spetta e che costui legittimamente e puntigliosamente chiede.

La verità allora c’è tutta, completa e limpida, ma il pregiudizio in Picquart non è sconfitto. Resta per questo aperta in modo inquietante una domanda: quell’avanzamento di grado negato a Dreyfus perché ebreo in cosa si sarebbe potuto trasformare in futuro? In un motivo in più fra quelli che alimentarono la ferocia antisemita del nazismo o fra quelli che avrebbero potuto evitarla?