Presentato fuori concorso alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e candidato a sei premi Oscar, Il caso Spotlight di Tom McCarthy, attualmente in programmazione al Lumière in lingua originale sottotitolata, è sicuramente uno dei film più attesi della stagione. A seguire, le impressioni di due collaboratori di Cinefilia Ritrovata.

Tra il 2001 e il 2002 il team Spotlight, un gruppo di giornalisti investigativi di The Boston Globe, conduce un’inchiesta che porterà alla luce uno dei più grandi scandali che abbia mai colpito la Chiesa cattolica: oltre 70 preti colpevoli di molestie sessuali ai danni di minori, più di 1000 le vittime totali in tutti gli Stati Uniti.

Guardando Il caso Spotlight è impossibile non richiamare alla mente l’immagine di Robert Redford e Dustin Hoffman in Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula che, seduti in ufficio tra scartoffie e telefoni che trillano a tutte le ore, mettono insieme i tasselli che porteranno alle dimissioni di Richard Nixon. Tom McCarthy ricalca infatti le orme del film sul giornalismo d’inchiesta vecchio stile, costruendo un’opera la cui vera forza risiede nei fatti narrati. Non c’è spazio per sensazionalismi, colpi di scena o sequenze melodrammatiche: lo stile asciutto e semplice porta lo spettatore a focalizzarsi su ciò che vede in maniera razionale, senza reazioni indotte. I fatti vengono raccontati in maniera rigorosa, distaccata e priva di preconcetti, portando sul grande schermo un modo di fare cinema che punta ad un’essenzialità priva di fronzoli.

Considerata la complessità di un argomento come quello della pedofilia in ambito ecclesiastico sarebbe stato possibile cadere in facili generalizzazioni, togliendo così alla storia parte della sua forza. Il pregio più grande de Il caso Spotlight sta invece nel prendere le distanze da categoriche e semplicistiche suddivisioni tra buoni e cattivi, eroi e antieroi. Nella chiesa di Boston non sono tutti colpevoli e i giornalisti di The Boston Globe non sono tutti innocenti.

La regia, seppur lineare e priva di guizzi, è ravvivata da un’ottima sceneggiatura che permette di ripercorrere le tappe dell’indagine in maniera chiara, quasi didascalica, ma facendo comunque emergere la grande passione ed il coraggio morale che ne hanno animato i protagonisti. McCarthy ci fa immergere completamente nel giornalismo d’inchiesta, fatto di frustrazione, notti insonni davanti al computer, telefoni sbattuti in faccia, prevaricazioni e tanta omertà. Nel cast, decisamente poliedrico, troviamo un Michael Keaton tormentato e inquieto; un Mark Ruffalo intenso e irruente nella sua voglia di cambiare le cose; un Liev Schreiber riservato ai limiti della scontrosità ma determinato fino alla fine; una Rachel McAdams agguerrita più che mai; e un Billy Crudup fascinosamente ambiguo.

Il valore morale dei fatti raccontati rende Il caso Spotlight un film necessario, la cui visione, doverosa, rappresenta un’importante presa di coscienza e un momento di riflessione sulla responsabilità collettiva e individuale.

(Barbara Monti)

Quando il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger divenne papa Benedetto XVI tutto il mondo già parlava da un po’ di anni degli episodi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica. Nonostante egli se ne occupasse già dal 1998 (il caso del reverendo Marcial Maciel Degollado) quando era ancora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, forse Ratzinger non si aspettò, una volta eletto, la pressione riservatagli dall’opinione pubblica, impaziente di vedere provvedimenti esemplari. A partire dal 2002 gli abusi sui minori da parte di preti, vescovi e sacerdoti – prima in America poi pian piano scoperti anche in varie parti d’Europa – riscossero una vasta eco mediatica interessando non solo i giornalisti ma anche l’intrattenimento: ovviamente la satira, su un argomento così succoso, si scatenò; e, si sa, a nessuno piace essere preso in giro da quelli di South Park (Amore cattolico rovente, S06E08).

Non si saprà mai se, oltre alle motivazioni ufficiali di tipo spirituale e inerenti all’età avanzata, fu anche quella sensazione di inadempienza dinnanzi ad un simile scandalo a portare Ratzinger all’abbandono del soglio pontificio, quell’inadeguatezza in veste papale che Nanni Moretti raccontò nel suo Habemus Papam proprio mentre egli era in carica. Ma neppure è da sottovalutare un probabile senso di colpa per un documento che firmò nel 2001, il De delictis gravioribus, fortemente criticato da Colm O’Gorman nel documentario Il Vaticano e i crimini sessuali in quanto, secondo il regista, strumento atto a incentivare l’omertà e l’insabbiamento da parte della Chiesa sulla faccenda dei preti pedofili.

Una triste storia all’insegna dell’“avrei potuto ma non feci nulla”, letta da questa angolazione. La stessa che velatamente sottende la minuziosa ricostruzione filmica ad opera di Tom McCarthy (co-sceneggiata insieme a Josh Singer) della prima inchiesta che fece scattare a inizio millennio l’interesse dei media nei confronti del fenomeno. Il caso Spotlight fa luce su ciò che venne adombrato dall’attacco alle Torri Gemelle: in quel periodo a Boston il quotidiano locale The Boston Globe, partendo dal caso di un prete di nome John J. Geoghan, fa partire un’indagine che porta in superficie una quantità incredibile di informazioni, tra confessioni di vittime delle molestie e oscuramenti dei singoli casi da parte di esponenti del clero.

Thriller investigativo col grande merito di rompere con la tradizione dei dialoghi “gridati”, tipica del genere, e di riempire invece le sue due ore di durata senza che vi siano mai frasi ad effetto o stoccate finali, personaggi sopra le righe o situazioni al limite, rinunciando sia a caratterizzazioni esagerate che a un ritmo serrato. Il film avanza lentamente, senza mai eccedere, controllatissimo e sobrio, facendo del caldo distacco la sua forza attrattiva. McCarthy non è Oliver Stone: Il caso Spotlight è l’alter ego di JFK – Un caso ancora aperto.

E nonostante presenti i giornalisti come degli impavidi eroi alla maniera de L’ultima minaccia di Richard Brooks e il già citato Tutti gli uomini del presidente, c’è tuttavia in loro quello slancio etico-sentimentale di dover rimediare ad un torto precedente, ad un errore del passato, che resta nascosto per gran parte del tempo per poi mostrarsi apertamente nel colpo di scena finale che interesserà uno dei protagonisti. Difficile non chiedersi quanto Ratzinger, in quel colpo e in quella colpa, potrebbe riconoscersi.

(Brando Sorbini)