Con Gli amori di Carmen, Raoul Walsh ridirige il trio di attori protagonisti del suo Gloria, e li reinserisce a distanza di un anno in un nuovo triangolo amoroso, questa volta a tinte ben più fosche. Già fattosi notare con l’opulento Il ladro di Bagdad, Walsh si riconferma qui un direttore che non disdegna l’appariscenza e le emozioni forti, ma stavolta all’acrobatica destrezza di Douglas Fairbanks preferisce l’erotica civetteria di Dolores del Rìo, la monolitica possanza di Victor McLaglen e la nevrotica ossessività di Don Alvarado. Le ambientazioni sono ampie e stracolme di comparse, restituendo la ricostruzione di una Spagna chiassosa e agitata, perfetta per echeggiare le movenze sfacciate ed eccessive della protagonista.

C’è un che di diabolico nel personaggio di Carmen, una donna altera, vanitosa e spregiudicata che si fa strada piegando la volontà degli uomini per perseguire i propri scopi. Eccessivo è anche il personaggio di Escamillo, il toreador idolo delle folle che rimane perlopiù impassibile al fascino di Carmen, che smembra e trangugia il cibo con voluttuosa ingordigia. La sua imponente costituzione fisica occupa spesso gran parte dell’inquadratura rendendolo una presenza ingombrante, al cui confronto gli altri uomini si perdono e appaiono poco più che arredi di scena. Al suo cospetto svanisce anche Jose, soldato e amante di Carmen, il cui fisico si deteriora sempre più col progredire della narrazione, e quindi della sua salute mentale. Se all’inizio lo vediamo dritto come un fuso e ben curato nella sua dignitosa uniforme, man mano che le sue pene amorose s’intensificano la sua schiena si ricurva, perde il suo portamento fiero e i suoi occhi colmi di folle gelosia si contornano di pesanti aloni neri, figli anche dei dettami del trucco dell’epoca.

Quello di Walsh è un film costruito sui corpi, e il più importante è sicuramente quello di Carmen, proporzionato e scattante, maliziosamente esposto in favore della cinepresa. Il punto più dolente dell’opera risiede proprio nell’eccessivo indugio di Walsh sul corpo della del Rio, che in certi momenti spezza il ritmo della narrazione per selezionare e sottolineare i dettagli più allusivi del suo fisico. Per quanto a lungo andare le insistenti attenzioni della cinepresa-voyeur risultino stucchevoli, va riconosciuto che contribuiscono a generare un’efficace estetica erotica della sospensione, una logorante promessa di piacere che non si concretizza, vero fulcro del potere persuasivo di Carmen e che ricorda l’emozione trasmessa dal celebre romanzo Venere in pelliccia, cui forse Bizet si è ispirato nella composizione dell’opera teatrale di cui il film di Walsh è l’adattamento.

Intrigante è però soprattutto l’aura di fatalismo che permea la vicenda di Carmen, la costante presenza di segni premonitori che indicano alla donna l’ineluttabilità della sua tragica fine. È sotto questa luce deterministica che si deve interpretare l’epilogo, in cui Carmen si scusa con l’uomo che la pugnala per gelosia. La donna si rassegna alle forze del destino ed è addirittura sollevata nel comprendere che i nefasti segni premonitori si riferivano alla sua sorte e non, come temeva, a quella del toreador, ed è questa consapevolezza fatalistica a salvare un finale che altrimenti sarebbe parso inutilmente moralista.