Italiano naturalizzato americano, classe 1970, Roberto Minervini è considerato uno dei più interessanti e originali documentaristi internazionali. Film come Bassa marea, Stop the Pounding Heart e Louisiana hanno raccontato facce nascoste dell’America contemporanea, il volto più intimo e fragile di un Paese le cui ferite raramente sono state mostrate con tanta disarmante sincerità. In occasione dell’anteprima bolognese del nuovo Che fare quando il mondo è in fiamme?, l’ha incontrato per noi Lapo Gresleri, autore del saggio Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana (Bietti, 2018) recante la prefazione dello stesso Minervini.
Lapo Gresleri: Roberto, ciò che sorprende maggiormente nei tuoi film è la naturalezza dei personaggi davanti alla macchina da presa. Penso alle confessioni personali della giovane protagonista di Stop the Pounding Heart con la madre, al coito tra Mick e Lisa in Louisiana o in Che fare quando il mondo è in fiamme? alla commozione sincera di Judy e compagni nell’esprimere le proprie emozioni e nel rivangare il passato. Come scegli i tuoi soggetti e come riesci a conquistare una fiducia tale da raggiungere la loro più sincera intimità?
Roberto Minervini: Parto sempre da una non-scelta, ovvero dalla frequentazione di luoghi e persone da cui nascono legami molto profondi fondati su esperienze comuni, su percorsi per certi versi simili. Pur venendo da contesti differenti, con molti dei miei personaggi condivido un processo catartico e ciò che ci unisce è proprio questa congiunzione spesso viscerale, primitiva. Il rapporto intimo con loro esiste dunque a prescindere, ma è l’elemento filmico a consolidarlo, rendendolo duraturo nel tempo. La macchina da presa non viene a frapporsi in queste relazioni, ma al contrario è strumento che le rende indelebili, facendosene testimone oculare. Il mio non è un approccio concettuale, ma piuttosto molto pratico, quasi tattile: il fatto che io esista con la macchina da presa, che non mi faccia sfuggire i più intimi dettagli dei miei personaggi, li rende realtà inconfutabili, con una propria forza e dignità, che dà loro la sicurezza necessaria ad aprirsi.
LG: Il tuo cinema è da sempre improntato a raccontare realtà marginali, storie individuali di esclusi, emarginati oppure isolatisi per scelta. Da dove nasce la tua esigenza narrativa verso queste minoranze del Paese? Inoltre, in Che fare quando il mondo è in fiamme? si coglie un cambio di passo, un tentativo di offrire un ritratto corale del proletariato afroamericano di Tremé a New Orleans. Da cosa è scaturita tale variante?
RM: Trovo che ci sia una maggior apertura, un’assenza di maschere, in certi contesti sociali con i quali riesco a relazionarmi senza filtri, instaurando un’intimità intesa nella sua accezione psicoanalitica di “sentirsi al sicuro”. Sono molto esigente nelle relazioni umane, mi metto in gioco e pretendo che gli altri facciano altrettanto. Inoltre, il mio muovermi nelle realtà marginali è anche una scelta politica. Il mio ultimo film parte da vicende e contesti singolari, ma li colloca in un preciso scenario storico-sociale (la lotta di classe, la questione razziale, ecc.), temi che travalicano l’individuo e l’individualità. Avevo la necessità di fare un film corale per dar forza a un messaggio collettivo, com’era negli anni Sessanta durante le battaglie per i diritti civili.
LG: Le storie che racconti nel film esprimono modi diversi di vivere e concepire il proprio afroamericanismo. Penso all’attivismo delle New Black Panthers, all’impegno di Judy verso la sua comunità o la dedizione di Ashley verso i figli Ronaldo e Titus, che educa alla “cultura della strada” al fine di preservarli dai pericoli a cui, come giovani neri nelle periferie, vanno facilmente incontro. Sono queste espressioni, citando William DuBois, delle “anime del popolo nero”. Secondo te questa molteplicità di vedute è il segno di una disunità interna alla comunità afroamericana, almeno sul piano culturale?
RM: Oggi si fatica a parlare di cultura afroamericana, la cui dispersione è anche conseguenza di anni di colonizzazione, oppressione, espropriazione della cultura stessa. Si preferisce usare il termine “resilienza”, una resistenza all’ambiente esterno che nasce da percorsi del tutto personali, dettati da fattori ambientali che il singolo si trova a vivere. È l’esperienza individuale che porta ad agire in modo diverso. Gli insegnamenti di Ashley, ad esempio, sono dettati anche dall’attorno. Quando incontrai lei e i figli, il primo giorno ero a casa loro e la strada era bloccata per un omicidio. Non sapevano chi fosse stato ammazzato, ma ne parlavano come facesse parte della loro quotidianità, cosa che di fatto è.
LG: Guardando alle figure femminili di Che fare quando il mondo è in fiamme? sorge spontanea una domanda: che ruolo hanno a tuo avviso le donne, e le madri in particolare, nella comunità nera contemporanea soprattutto dei ghetti, dove gli uomini sono spesso assenti perché in carcere o uccisi, oppure – come li rappresenti nel film – fragili, disarmati e spaventati dalla vita?
RM: Uno degli effetti maggiori del razzismo istituzionalizzato americano è lo sfaldamento dell’istituzione familiare nera. L’incarceramento del maschio va a minare proprio il fondamento principale della comunità afroamericana. La madre si trova dunque a ricoprire un ulteriore ruolo, quello di educatrice alla paura, impartita con austero stoicismo di generazione in generazione e che proviene da una più ampia strategia del terrore imposta nei secoli dalla società bianca americana. Questo atteggiamento però ha delle conseguenze. Essere sempre così severi e in allerta verso i rischi esterni fa perdere l’empatia e l’amorevolezza tipici di una madre. La donna rinuncia così alla propria visceralità per farsi educatrice arcigna, inflessibile, eroica.
LG: Uno degli aspetti tecnici più evidenti del tuo ultimo lavoro è l’uso del bianco e nero, una scelta insolita per un documentario che, a mio avviso, va oltre la variante puramente estetica. Possiamo interpretarla come portatrice di un valore simbolico aggiunto, quasi a voler mettere ancora più in evidenza il contrasto tra l’America bianca e quella nera al centro del film?
RM: C’è sicuramente questo aspetto simbolico. Inoltre la scelta acromatica si sposa coi campi stretti, focalizzando l’attenzione sui volti e in parte sui corpi, ma non sul territorio, perché l’intenzione era rendere il film quasi atemporale per creare un continuum con l’eredità culturale delle lotte per i diritti civili, la cui iconografia, parte ormai integrante della memoria collettiva afroamericana di oggi, è appunto in bianco e nero.
LG: Che fare quando il mondo è in fiamme? presenta numerose analogie con l’ultima produzione di Spike Lee: la lotta contro il Klan di BlacKkKlanmsman, il ruolo delle donne nelle periferie di Chi-raq, il racconto della comunità nera di New Orleans post-Katrina. Quanto il suo cinema – e in forma più ampia il cinema afroamericano – ha influenzato questo film e, in generale, quali sono gli autori che maggiormente hanno segnato il tuo modo di fare e pensare cinema?
RM: Spike Lee è il mio autore di riferimento per quanto riguarda il cinema americano e afroamericano, ma si tratta di un confronto che continua a crearmi difficoltà. È lui la ragione per cui finora non ho voluto fare film sugli afroamericani. Penso a quando parla dell’appropriazione culturale e della necessità di auto-rappresentazione. Mi sono sempre domandato, da bianco oriundo, come avrei potuto rappresentare il nero americano, sapendo che mi sarei dovuto confrontare con voci autorevoli come Charles Burnett o appunto Spike Lee, a mio avviso il più attivo nell’ambiente e quello a cui sono legato anche da un punto di vista geografico, essendo io diventato americano a New York. Lee da insider racconta storie di insiders, mentre io da outsider racconto di outsiders e in Che fare quando il mondo è in fiamme? mi sono fatto testimone di uno stralcio di realtà afroamericana contemporanea. Ma sarebbe interessante indagare a fondo, se non in maniera diretta almeno nei libri di storia del cinema, come il suo lavoro abbia influenzato il mio.
LG: Hai già nuovi progetti in cantiere? Quale potrebbe essere, secondo te, un altro lato sconosciuto dell’America di oggi ancora da esplorare?
RM: Il mio è un cinema di relazioni, si fonda su di esse e mi sento ancora molto legato ai personaggi di quest’ultimo film per pensare di voltare pagina. Sto cercando di capire se e come approfondire ulteriormente il forte legame che ho costruito soprattutto con Judy. Vedremo… Buchi neri nella storia contemporanea americana ce ne sono molti. Ultimamente mi sono avvicinato al movimento delle Pantere Rosa, miliziani omosessuali americani alla stregua dei gruppi di destra antigovernativi, ma non mi sono ancora deciso ad approcciarli. Quello che mi interessa in America è l’insubordinazione, la spinta sovversiva che ha l’ambizione di cambiare le cose, un atteggiamento necessario oggi nel Paese.