Opera prima, adolescente, disagio. Non proviamoci nemmeno a calcolare il numero di volte che abbiamo visto film fondati su queste tre caratteristiche. Aggiungiamoci anche il luogo, la provincia campana, ed ecco che il repertorio è al completo. Per fortuna, sulla carta Un giorno all’improvviso è più banale di quanto effettivamente non sia sul grande schermo, nonostante il manierismo dietro l’angolo. Al primo lungometraggio dopo quattro corti, Ciro D’Emilio segue l’antica convinzione che all’esordio si debba parlare di temi vicini dei quali si conosce abbastanza.

Al contempo si inserisce nel solco di un filone inesauribile benché congestionato: il coming of age di un ragazzo a cui la vita non ha arriso in un contesto problematico. In questo caso un diciassettenne rinnegato dal padre e con una madre borderline, che ha abbandonato la scuola e lavora nelle terre di famiglia e presso una pompa di benzina, mentre sogna di trasferirsi grazie al suo talento nel calcio notato dagli osservatori del Parma.

Pur dimostrando tutta l’empatia possibile nei confronti di un ragazzino costretto a crescere troppo in fretta, D’Emilio non scade nel patetismo attraverso l’indulgenza, preferendo un racconto a suo modo esemplare in cui il riscatto annunciato si rivela infine un’ennesima illusione. L’aspetto più interessante del film sta proprio qui, nella speranza montata fino alla sua negazione, malgrado l’apologo sia talmente prevedibile da non riuscire mai a dire qualcosa di davvero nuovo.

Ed è un’obiezione che nasce nel momento in cui Un giorno all’improvviso viene selezionato in Orizzonti, la sezione che ha l’obiettivo di mostrare “nuove tendenze estetiche ed espressive del cinema mondiale”. Intendiamoci, il film è decorosissimo ma si sente sempre dietro l’angolo un certo sentore derivativo e poco personale.