Diversi, eclettici, entrambi al lavoro per la Paramount e ugualmente relegati ai margini del canone hollywoodiano, Frank Tuttle e Stuart Heisler sono protagonisti della retrospettiva curata da Eshan Khoshbakht, I fuorilegge: Frank Tuttle vs. Stuart Heisler, al tempo stesso appaiati per affinità di vedute politiche e messi in contrapposizione da quel versus nel titolo: a sottolineare la natura comparativa della selezione e la differenza stilistica dei due registi, che rappresentano il perfezionamento del mestiere della regia e la capacità di muoversi tra i generi più disparati sfruttando i talenti a disposizione.

La prima coppia di film in programma, la commedia Ladies Should Listen di Tuttle e il melodramma The Star di Heisler, è accomunata dalla presenza di due divi in momenti molto diversi delle rispettive carriere. Nei primi anni Trenta Cary Grant sta muovendo i primi passi a Hollywood e Ladies Should Listen è uno dei film che contribuiscono a cesellare la sua carriera nella commedia screwball; Bette Davies è invece fresca di Oscar per Eva contro Eva quando interpreta una versione di se stessa in declino nel dramma metacinematografico The Star, uscito nel 1952.

In Ladies Should Listen i personaggi sono sospinti gli uni verso gli altri da buone o cattive intenzioni orchestrate secondo piani costantemente fallimentari. Il dongiovanni Julian de Lussac torna dal Cile a Parigi, dove vive in un lusso precario, essendo poco più che un avventuriero spiantato. La trama fa subito cadere il protagonista tra le braccia di una femme fatale sudamericana, in combutta con il marito poco di buono: ma non è che un pretesto per metterlo al centro di una rete caotica di invenzioni e sotterfugi di cui pensa di essere architetto ma che in realtà lo vede burattino. È la centralinista Anna Mirelle (Frances Drake), segretamente innamorata, l’atipica artefice di equivoci e deviazioni attraverso i quali elargisce aiuti e piccole vendette, sfruttando la conoscenza enciclopedica dei segreti del vicinato che il suo lavoro le consente.

E se si pensa che nella prima sequenza del film l’ereditiera Susie Flamberg (interpretata dalla caratterista Nydia Westman) è letteralmente sballottata tra il suo spasimante Paul (Edward Everett Horton) e il suo oggetto di interesse Julian senza che le sia concessa nemmeno una battuta di dialogo, è quasi sorprendente la profondità di sfumature delle personalità e dei caratteri femminili che progressivamente si rivelano. Proprio il personaggio di Susie è particolarmente vitale nel suo, pur caricaturale, slancio di esplicito desiderio nei confronti dell’avvenente Julian, rappresentato dalla molteplice valenza simbolica degli occhiali di lei, uno dei molti accessori di scena usati in modo brillante, accanto a porte che non riescono a impedire l’ingresso a nessuno e alle complicate invenzioni, puntualmente inutili, di Julian e del fido maggiordomo Albert.

Bette Davies domina invece The Star da tutti i punti di vista, e la regia di Heisler la esalta sia quando, dal centro dell’inquadratura con lo sguardo in macchina, declama monologhi che sovrappongono chiaramente la diva Margaret Elliot all’attrice che la interpreta, sia quando oscilla tra l’entusiasmo sopra le righe e la disperazione più cupa, crollando su divani e pavimenti con movimenti controllati e perfetti. Al centro del film gli effetti psicologici del distacco dalla realtà causato dalla fama, che è soprattutto dipendenza dal potere che la accompagna, come sottolinea verso il finale un regista lungimirante. L’illusione di grandezza di Margaret è messa in contrasto con le gioie dei comuni mortali, come l’amore filiale o la concretezza discreta dell’ex-attore Jim, pacifico nel proprio fallimento cinematografico e reinventatosi proprietario di un cantiere navale.

Molti i riferimenti espliciti alle cronache hollywoodiane, tra il cinico tour delle ville che Margaret non si può più permettere e l’etichetta di box office poison, realmente affibbiata a star come Greta Garbo, Marlene Dietrich e Joan Crawford. La discesa di Maggie verso l’ennesimo affronto dello studio system è inevitabile, anticipata da chiaroscuri sempre più evidenti e dal contrasto stilistico con una generazione di filmmaker alla ricerca di naturalismo. Ma la prevedibilità del tracollo e il finale fin troppo rassicurante non intaccano le tante felici intuizioni del film: non solo la scena in cui l’Oscar di Margaret/Bette diventa un inanimato e inquietante compagno di bevute, ma anche la presa di coscienza della propria obsolescenza, che avviene per Margaret solo quando si rivede su uno schermo, capace di restituire violentemente la verità nascosta della sua persona cinematografica, e dunque, di riflesso, della propria identità.