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“Il soldato negro” e le contraddizioni di una nazione

Negli anni Quaranta, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il cinema hollywoodiano si schiera in prima linea con opere di spirito propagandista a sostegno dell’intervento bellico, in nome di quei valori di pace, libertà e uguaglianza di cui l’America si è sempre fatta promotrice. Uno dei lavori più interessanti di questa produzione è Il soldato negro di Stuart Heisler, scritto dall’autore nero Carlton Moss e rivolto esplicitamente al pubblico afroamericano, il cui intervento bellico è rappresentato come ideale prosecuzione del contributo storico dato dal popolo black alla crescita del Paese. Il film ha il merito di essere uno dei primi a rappresentare fieramente le truppe nere, ma come la maggioranza delle pellicole bianche di quei anni su temi analoghi, la visione che offre della coeva questione afroamericana è solo parzialmente veritiera ed esclude volontariamente le questioni più scomode e spinose.

Un film di denuncia, ma non troppo. “La setta dei tre K” al Cinema Ritrovato 2020

Storm Warning è uno di quei film di denuncia espliciti nel messaggio, ma forse meno coraggiosi di altri dalla finalità meno palese, formalmente efficace ma con molti dettagli datati e discutibili: dalla straniante e problematica assenza dell’elemento razzista, alla mera strumentalizzazione narrativa dell’omicidio del giornalista, dai distinguo tra membri del Klan e “brave persone” comunque aggrappate a pregiudizi e tornaconti personali, all’accumulo di azioni deprecabili. Il Klan è rappresentato come un’organizzazione criminale finalizzata per lo più ad arricchirsi, e il buon procuratore di Reagan, irreprensibile a parole, è in realtà piuttosto cauto nel fermare una setta che usa rituali tutt’altro che discreti.

“Among the Living” al Cinema Ritrovato 2020

Heisler era giusto reduce dall’horror The Monster and the Girl, e gli viene affidata una sceneggiatura di Lester Cole e di un grande scrittore di horror melodrammatici come Garrett Fort, che aveva lavorato su Dracula di Tod Browning e Frankenstein di James Whale.  E tocchi di orrore sono presenti ovunque nelle atmosfere sinistre di Among the Living, dalla meravigliosa e alla terribile scena dell’inseguimento di una ragazza da parte di Paul, che scompare nel gorgo oscuro di un vicolo, alla ferocia compiaciuta con cui la folla insegue Paul e poi John, credendolo il fratello, così simile a quella di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang.

Le chiavi di vetro di Tuttle e Heisler

Il diverso tono dei due film dà luogo a un interessante caso di doppia variazione sul tema, incarnata dai due Ed rispettivamente interpretati da George Raft e Alan Ladd: il primo è diretto e ironico, a tratti persino spensierato, il secondo più obliquo e impassibile, capace di manipolazioni ben più ciniche. Differenze che riverberano sia nello stile – essenziale nel primo film, elaborato e supportato da una macchina da presa molto più mobile nel secondo – sia nell’andamento della narrazione intorno ai protagonisti: più asciutto e rapido La chiave di vetro di Tuttle, in cui il dettaglio determinante per la risoluzione finale è suggerito molto presto, più elaborato e grave quello di Heisler, che dà alle false piste una direzione più contorta e cupa, con la sequenza, assente nel primo film, dell’incontro alla villa dell’editore Matthews, che culmina in modo drammatico.

“Tutto finì alle sei” e il mito hollywoodiano del criminale con un cuore

Mentre è diretto in auto verso le montagne, un uomo incontra e aiuta una scalcagnata famiglia composta da due nonni e una nipote diciannovenne, Velma, in viaggio dall’Ohio verso Los Angeles. Proprio una brava persona, commenta il nonno, subito prima che una pagina di giornale ci informi che l’uomo è Roy Earle, rapinatore nemico numero uno dell’FBI, incredibilmente rilasciato in anticipo dalla prigione. Così inizia Tutto finì alle sei (I Died a Thousand Times) di Stuart Heisler, remake di Una pallottola per Roy di Raoul Walsh, la cui sceneggiatura è stavolta accreditata al solo W.R. Burnett, autore del romanzo originario High Sierra.

“Una donna distrusse” al Cinema Ritrovato 2020

Non tanto un film sulla dipendenza come origine di ogni male, quanto piuttosto come conseguenza di una infelicità ordinaria, esiziale: Heisler, evidentemente affascinato dal tema dell’alcolismo (ha un posto di rilievo anche in altre sue opere) racconta un melodramma come un noir, a dispetto del barocchismo della trama, con un senso primigenio di solitudine e inutilità dell’eroe – in questo caso un’eroina – e con una singolare asciuttezza di dialoghi e di interpretazione. Susan Wayward dà tutta se stessa e la propria umiliazione alla parte della protagonista, ed è stata poi candidata all’Oscar come migliore attrice. Non dunque un film sulla violenza maschile ma sulla violenza dei ruoli di genere rispetto alle possibili inclinazioni e passioni individuali.

Un tocco di Frank Tuttle e Stuart Heisler tra Cary Grant e Bette Davis

Diversi, eclettici, entrambi al lavoro per la Paramount e ugualmente relegati ai margini del canone hollywoodiano, Frank Tuttle e Stuart Heisler sono protagonisti della retrospettiva curata da Eshan Khoshbakht, I fuorilegge: Frank Tuttle vs. Stuart Heisler, al tempo stesso appaiati per affinità di vedute politiche e messi in contrapposizione da quel versus nel titolo: a sottolineare la natura comparativa della selezione e la differenza stilistica dei due registi, che rappresentano il perfezionamento del mestiere della regia e la capacità di muoversi tra i generi più disparati sfruttando i talenti a disposizione.

“Journey Into Light” al Cinema Ritrovato 2019

Non sarebbe privo di qualche attrattiva, questo Journey into Light (1951) di Stuart Heisler, grazie a una sceneggiatura assai verbosa ma che sviluppa il tema della crisi esistenziale e spirituale in maniera potenzialmente interessante: non si tratta di un classico percorso di caduta dell’eroe e suo ritorno alla Grazia, quanto piuttosto una riflessione sulla mancanza di fede di chi predica bene ma dentro di sé sente poco, e che, messo alla prova dagli eventi, dovrà imparare a superare un risentimento verso il divino che è in realtà un giudizio su se stesso. Non a caso il reverendo alla fine, potendo optare fra il tornare alla vecchia vita in mezzo ai farisei o il rimanere nella nuova fra i peccatori, propenderà senza indugio per la seconda ipotesi.