L’opera prima del critico Alessandro Aniballi, Una claustrocinefilia, si presenta come una stratificazione sinergica di diversi contenuti e approcci, decodificabile nelle sue singole componenti solo a costo di snaturarne l’organicità e l’efficacia espressiva.

A prima vista si presenta come un documentario autobiografico, prevalentemente di montaggio, sull’esperienza vissuta dal protagonista durante la quarantena da Covid. L’Alessandro personaggio sublima lo straniante isolamento in un animistico dialogo/confessione con il suo computer, strumento di lavoro ma anche deposito di progetti accantonati, e attraverso di esso dialoga con noi.

Parte quindi un flusso organizzato di pensieri suddiviso in capitoli, chiamati qui "sindromi", che affrontano la vita privata e professionale del personaggio tenendo l’amore verso il cinema come filo conduttore. Si intrecciano quindi il lutto per il gatto domestico con la storia di Benicious il cinefilo errante, la fondazione della rivista Quinlan con la figura di San Girolamo.

La figura emblematica di questo procedimento divagante/autoanalitico è Michelangelo Buonarroti, soggetto di un film che Alessandro vorrebbe realizzare e doppio ideale del narratore, in quanto inventore della tecnica scultorea del non finito. L’autore racconta della sua crisi professionale, tra progetti mai portati a compimento e la stanchezza di scrivere di cinema, anche se in diversi frangenti l’Alessandro critico prende il sopravvento e trasforma la narrazione in una lezione dimostrativa di analisi cinematografica.

È proprio in passaggi come, ad esempio, quello in cui viene discussa la composizione di un fotogramma di L’infernale Quinlan che il documentario disillude le sue premesse e si manifesta nella sua intima essenza come una storia d’amore. Attraverso l’uso della voce, ironicamente la stessa di cui si lamenta, Alessandro narratore crea infatti un evidentissimo contrasto fra la trasparente esposizione autobiografica e le appassionate, talvolta nostalgiche, divagazioni sul cinema.

Il lato emotivo dell’opera è forse più accessibile ai non “addetti ai lavori”, perché è facile che questi ultimi si lascino sopraffare da giochetti puramente intellettuali, godendo di riflesso della propria erudizione piuttosto che di quanto il film abbia da offrire. 

Una claustrocinefilia è certamente un documentario metacritico finemente strutturato, ma prima di tutto una sofferta storia d’amore a senso unico, fatta di disillusione e abbandono quanto di dipendenza e affiatamento, verso quell’oscuro oggetto del desiderio che è il cinema.