Il cinema è una parentesi nel tempo, nel nostro tempo. La Nouvelle Vague, tuttavia, fa un passo in avanti, c'è il tempo della storia e il tempo dei protagonisti della storia, una sorta di tempo nel tempo: mise en abyme, per i francesi. E la donna è quasi sempre al centro di questa matrioska. Si pensi al personaggio di Macha Méril in Una donna sposata, dove tutto ruota intorno alla sua figura, dal profilo spigoloso agli sguardi in macchina, una donna spezzata dai continui tagli e stacchi da un'inquadratura all'altra, l'unità dialettica del montaggio, come avrebbe detto Jacques Rivette. Inveterato e scontroso tombeur de femmes, lo sguardo di Jean-Luc Godard sulla donna è unico, perché pur tenendola a distanza – attraverso le carrellate, o i dilatati piani sequenza con cui riprende Anna Karina in Questa è la mia vita, nei bistrot e nei boulevard parigini – va a toccarne le corde più profonde, dispiegandone la condizione esistenziale non attraverso le parole, ma con l'immagine.
In tal senso il regista è sempre un voyeur, ma Godard lo è in maniera diversa, per esempio, da Bertolucci che fa sentire l'incombenza di un occhio che sa come mettere a disagio, spogliando sia i protagonisti che lo spettatore; quello di Godard è un voyeurismo disincantato, e una volta entrati a contatto con l'apparente e gelida freddezza della messa in scena, non possiamo non percepire il dramma di Nanà, nel suo semplice interrogarsi sul perché della propria esistenza, che da soggetto diventa oggetto per tirare avanti.
Per Agnès Varda, invece, il tempo della storia è completamente subordinato rispetto alla vita interiore della sua Cléo, e della sua corsa affannosa contro il tempo che la separa dal risultato di alcune analisi mediche. Dalle 5 alle 7 di un imprecisato giorno, tra gli stessi arrondissement di Parigi, vaga quest'altra donna spezzata, che la Varda segue rendendosi quasi invisibile dietro la macchina da presa. C'è il successo e la possibilità di una malattia incurabile: Cléo non sa più chi è né dove si trovi e prova disperatamente a ridefinirsi attraverso le incostanti presenze della sua vita, dall'assistente all'amante, quegli sparuti moments of being che culmineranno nel momento rivelatorio finale: sentirsi viva, al sicuro vicino alla fine.
Sincerità e trasparenza di sguardo sono caratteristiche che contraddistinguono la Nouvelle Vague e specialmente cinema di Agnès Varda, da Clèo dalle 5 alle 7 alla disinibita Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge, fino alla sua ultima dichiarazione d'amore al cinema e alla vita che diventano un tutt'uno. Visages, villages, un'opera la cui ragion d'essere sta nel potere di un'immaginazione che spazia nel passato, presente e futuro, da Godard o dal ritratto dell'amico Guy ai piedini di Agnes incollati sul treno e destinati a raggiungere chissà quale village remoto, facendo sì che la fantasia vada dove la corporeità non può spingersi. Il viaggio di madame Varda e JR è svincolato da qualsiasi categoria, un'inchiesta su sé stessi e sull'altro che si svolge dinanzi ai nostri occhi, senza artificio o bisogno della "tecnica", dove è la realtà effettuale a diramarsi in tante, piccole, commoventi e svariate ramificazioni. E gli si concede tempo e spazio, indistintamente, arrivando a una non - conciliazione trattata con leggerezza e ironia, con una sequenza finale letteralmente mozzafiato.