Con il concetto di “autobiografia altrui”, Antonio Tabucchi intendeva l’esperienza con cui un lettore ipotizza in modo vagabondo, nomade ed arbitrario la vita di qualcun altro, una sorta di poetica a posteriori che si serve della menzogna per definire i confini di una verità altrimenti sfuggente. Di fronte a Garage Demy di Agnès Varda potremmo respingere la spiegazione ma accogliere l’immagine principale. Il narratore non coincide con l’oggetto del racconto, ma non inventa nulla: si fonda sui ricordi e sui pensieri del narrato. Al contempo, è difficile non far corrispondere la voce della regista alla presenza del marito Jacques Demy. Minato dalla malattia, si lascia accarezzare dallo sguardo della compagna di vita, donando i propri flashback per costruire un biopic quasi sperimentale, retto su un’affascinante simmetria tra la vitalità creativa dell’adolescente Jacquot e la dolente elaborazione del distacco di (e dal) Jacques maturo.
È impossibile parlare di Garage Demy senza toccare l’amore. Più precisamente: è un film innamorato. In questa sorridente quanto devastante cerimonia dell’addio, Varda rende omaggio al cineasta attraverso il suo privato più remoto, seguendo cronologicamente le tappe della scoperta di uno spirito creativo. Scopriamo così che Lola si ispira ad una cantante vista in un locale di Nantes, che il mestiere del protagonista di Les parapluies de Cherbourg omaggia quello del padre meccanico, che Pelle d’asino deve qualcosa ai pomeriggi con la mamma in cucina, che Les demoiselles de Rochefort è la fuga a colori dal bianco e nero del dopoguerra… Garage Demy costituisce anche l’occasione per indagare dentro una relazione sentimentale che, a livello professionale, è stata più osmotica e fertile di quanto sia dichiarato dai crediti dei loro film (ad essere pignoli, solo in un caso Varda è nei titoli di un film di Demy: è Lady Oscar, che, se non il peggiore, è il suo lavoro più incredibile).
È commovente la dedizione con la quale lui offre occhi, mani, parole alla moglie, con una tenerezza dello sguardo che mai somiglia all’ambiguo benché lucido rapporto tra Wim Wenders e Nicholas Ray alla base di Nick’s Movie. Ed è struggente la consapevolezza di Varda che in pressoché tutta la sua produzione successiva ha sempre dedicato uno spiraglio, un lampo, anche soltanto una parentesi al coniuge scomparso: come accade ne Les plages d’Agnes, in cui l’autobiografia attraverso le spiagge non può che legarsi al finale marittimo di Garage Demy. E come accade in un momento straziante del meraviglioso Visages, Villages, dove un biglietto di Jean-Luc Godard, assente volontario, tira in ballo Demy spiazzando e scuotendo la regista.
Collage di memorie su come nasce un cineasta, album personale che diventa familiare perché fondato sulla trasmissione del patrimonio alla sola persona che può coltivarlo e preservarlo allo stesso modo: più che un requiem, un incantevole atto d’amore, la cui immagine forse più potente è quella di Demy col nipotino che proietta un filmino in casa. Per dirla come il Philip Roth del lancinante Patrimonio, per Varda “era lui la lingua di ogni giorno”. E, pur diversissimi, questi due commiati si reggono su un’idea semplice quanto dolorosa, che nel caso di Garage Demy trova una forma ibrida dove la morte si sente ma non si vede mai: “non devi dimenticare nulla”. Della vita, s’intende.