Con la danza, il corpo emana vitalità ed energia senza eguali, pulsioni e muscoli che si distendono e contraggono in solitudine o durante un pas de deux, oppure, ancora di più, nella coralità di una coreografia di insieme, in cui l’interpretazione delle singole variazioni cresce e si consuma all’interno di sé ed è, quindi, personale, quasi privata, ma nel contempo funzionale a renderne l’architettura generale: una dialettica di anime e corpi che si sfregano gli uni contro gli altri, incontrandosi e scontrandosi, amandosi e ferendosi. E questo il coreografo di Suspiria lo sa benissimo, poiché, del remake del capolavoro argentiano diretto da Luca Guadagnino, strega il lavoro compiuto sui corpi e sull’essenza stessa del movimento, quando ci si avvicina a un tal genere di espressione dell’io.

La danza è stata a lungo considerata un’arte tendenzialmente pulita e cristallina, in cui era impossibile concepire gesti e spostamenti al di fuori di un quadro ben preciso, in cui tutto era calcolato e nulla lasciato all’improvvisazione o al caso. Non è da poco che, tuttavia, in linea con le tendenze artistiche e culturali del secolo scorso, danzatori e coreografi hanno cominciato a sviluppare un linguaggio nuovo, più estremo e radicale, attraverso la drammatizzazione di conflitti identitari o di natura anche erotica, la cosiddetta “danza teatrale”, in particolare nell’opera di Pina Bausch. +

Non è importante il modo in cui ci si muove, ma da cosa si è mossi, sosteneva l’artista; chi danza deve trasmettere allo spettatore lo spasimo dovuto a ogni singolo passo, comunicarne la portata, stabilendovi anche un contatto, quando è necessario: la danza come distruzione della categoria del Bello ed espressione del conflitto, della lotta tra contrari e, come rivela Madame Blanc alla Bannion, della graduale dissoluzione della propria identità, quando s’interpreta “la danza di un altro”.

Tutto questo è il Suspiria di Guadagnino. Un film sulla scoperta della congiunzione tra arte e morte, sul cambiamento nella percezione della danza da parte della cultura underground degli anni Settanta, e sul “potere” di donne non riconciliate, tormentate, ma mai schiacciate o vittime. Siamo, infatti, nel 1977, anno cruciale di trasformazioni e rivolte e, non per caso, ad emergere dal sottotesto è la messa in discussione delle figure genitoriali, specialmente di quella materna (“non ci saranno più altre madri!”). Combinando tecnica, estetica e genere, Guadagnino realizza un’opera personalissima, volutamente – e fortunatamente, diremmo – distante dagli accordi originari, di modo da fornire una sua particolare versione di ciò che la visione del film di Argento evoca di volta in volta: è il linguaggio del corpo a tradurre l’angoscia, il terrore e la paura primordiali in immagini più lampanti e vivide, sublimandone il caos in movimenti spezzati.

E c’è poi Thom Yorke, che tra pianoforte e sintetizzatori, ci fa completamente dimenticare dei Goblin, infondendo alla narrazione un’aura meno sinistra, ma più melancolica e nostalgica: “il film musicalmente è come un incantesimo, con delle musiche che si ripetono. E volevamo creare come dei sortilegi in studio”, facendo sì che la danza diventasse essa stessa un personaggio, un linguaggio, appunto, della trascendenza e della magia.