La voce calda e profonda di Peter Bogdanovich fa da guida all’interno di una vasta raccolta di materiale proveniente da diversi archivi e biblioteche, che fanno del documentario un viaggio nel passato e verso ciò il passato porta al presente. Così si ha la sensazione che Buster Keaton non morirà mai.

Le foto ormai ingiallite e i manifesti che ritraggono il piccolo Buster nell’esibirsi durante gli spettacoli di vaudeville con i genitori, e successivamente anche con i fratelli più piccoli, sono parte della documentazione proposta. Un insieme di fonti che Bogdanovich accosta ritmicamente e in maniera ironica a partire dal materiale musicale e dai frammenti di film, con e di Keaton. Inoltre per la prima metà il documentario è frammentato dalle interviste a illustri nomi indimenticabili appartenenti a diverse generazioni: da Dick Van Dyke (caro amico di Keaton) e un Orson Welles che introduce il film Come vinsi la guerra, a Quentin Tarantino - che afferma di adorare il personaggio keatoniano per il suo non sottomettersi scimmiottando i personaggi prevaricatori - fino a Jon Watts, il quale racconta di essersi ispirato al movimento del corpo di Keaton ed alle sue gag per il suo Spider-Man.

Bogdanovich parte dalle origini di Buster, dalle sue prime parti nei cortometraggi di Roscoe (Fatty) Artbuckle, e prosegue con i film scritti, diretti ed interpretati da Buster, in quello che risulta un documentario tributo alla memoria di Keaton dall’impostazione semplice e lineare, quasi televisivo. Il co-produttore del film e il direttore della fotografia - in occasione della 75a Mostra del Cinema di Venezia - hanno raccontato che il montaggio è avvenuto nell'arco di un anno, ed è stato suddiviso in due fasi: dapprima la parte relativa alla documentazione e successivamente quella riguardante le interviste. Quest’ultime inoltre sono state girate nello stesso luogo, ma per non risultare ridondanti e ripetitive hanno cercato di variare le inquadrature il più possibile affinché potessero sembrare diversi collocazioni.

Peter Bogdanovich, negli ultimi venti minuti, ha deciso di omaggiare il grande maestro attraverso una breve analisi di alcuni dei suoi film più noti, lasciando spazio a un lato critico che accompagna l’approfondimento. Narra ovviamente anche del crollo di Keaton in seguito non solo all’avvento del sonoro, ma anche, e soprattutto, al carcere mentale a cui la MGM lo ha costretto. L’imposizione di una struttura precisa e il dover scrivere sulla carta ogni singola questione riguardante un suo film in produzione, ha fatto sì che l’arte di Keaton, fatta soprattutto di gag improvvisate, venisse sventrata fino a costringerlo a un ricovero forzato in manicomio.

Bogdanovich si sofferma anche sulla fase meno nota della carriera di Keaton, che lo vede protagonista di numerosi spot pubblicitari slapstick, e anche quella in cui lo si vede recitare in film profondamente drammatici: purtroppo solo in età avanzata, perché come sostiene anche Bogdanovich, forse quella direzione avrebbe potuto mantenere il suo genio artistico più a lungo, magari senza farlo sprofondare nell’alcol e nella depressione. Presentare questo documentario a Venezia rende il film un doppio omaggio a Keaton, che l’anno prima della sua morte ricevette più di dieci minuti di applausi per quello, che oggi è noto come il Leone d’oro alla carriera, ma che nel 1965 era un omaggio realizzato attraverso una retrospettiva.