Partiamo dalla fine, cioè da oggi. Venezia Classici celebra il ventesimo anniversario della scomparsa di Marco Ferreri proponendo ben due operazioni: la prima è un documentario di taglio classico, diretto da Anselma Dell’Olio, divulgativo quanto basta per omaggiare il magistero di un autore contro poco considerato secondo gli ideatori (ma è vero? È attendibile la vulgata secondo cui Ferreri sia vittima di oblio? Siamo sicuri?); la seconda è un restauro, faticoso e necessario, compiuto da L’immagine ritrovata.
Lo rileva la compresenza nella sezione di questi due “Ferreri dopo Ferreri” ci interessa perché, alla prova dei fatti, al di là dell’indubbia importanza delle testimonianze raccolte dal doc, sembra che sia proprio il restauro il modo forse più giusto per mantenere viva la memoria del cineasta, perché solo di fronte alla sua opera risorta e rimessa in circolazione lo spettatore contemporaneo può maturare un pensiero nuovo su questo autore del passato ma che pareva venire dal futuro. Specie se il restauro in oggetto si ripresenta al mondo svelando piccoli segreti: parliamo de La donna scimmia, incredibile capolavoro non solo in grado di turbare ancora per ciò che è (un mascalzone bugiardo e mitomane che sfrutta una ragazza piena di peli alla stregua di un freak) ma soprattutto per ciò che è stato e che avrebbe potuto essere.
La nuova versione, infatti, accoglie i tre finali girati da Ferreri: uno luttuoso, un altro inquietante che completa il precedente e un altro ancora conciliante. In Italia il film uscì con quest’ultima coda, imposta da Carlo Ponti inorridito al cospetto di un epilogo immorale e sconvolgente (il secondo). Eppure, prendendola da un altro verso, si potrebbe dire che dobbiamo a Ponti, produttore tanto bigotto quanto scaltro, questa insolita terna. Quasi che dovremmo ringraziarlo perché ci permette di isolare tre temi che abitano i vari finali rivelando la complessità del cinema di Ferreri (e di Rafael Azcona, suo indispensabile sodale).
Nel caso della morte della donna scimmia dopo il parto infelice, abbiamo il culmine della personalissima concezione di pietà di Ferreri: condanna il laido Ugo Tognazzi al dolore di un doppio lutto unito al tramonto della possibilità di sfruttamento commerciale del fenomeno da baraccone; mette in scena un piccolo gruppo di medici cinici e con poco tatto (caratteristi grandi almeno quanto le bellissime facce anziane e malconce viste lungo il film tra il manicomio e la pensione parigina); e salva Annie Girardot portandola lontano dal mondo squallido, restringendo letteralmente il fermo immagine del suo cadavere fino a farla scomparire nel buio.
Il secondo finale è un tipico caso da (auto)censura dell’epoca: morti moglie e figlio, Tognazzi acconsente all’imbalsamazione e, dopo averli prelevati dal museo scientifico, li porta in tournée. Inaccettabile per Ponti, ma più dell’agghiacciante grottesco qui Ferreri svela davvero la solitudine del male, sia nella panoramica in cui vediamo gli spettatori in piazza che si rifiutano di entrare nel teatrino sia nel devastante primo piano di Tognazzi, vittima della sua stessa crudeltà. Ferreri moralista? Non è il punto: umanista, piuttosto. Antropologico, zoologico, scientifico.
Infine, la terza proposta: Girardot sopravvive, mette al mondo un bel figliolo e perde tutti i peli, gettando nel panico Tognazzi, che è allora costretto, dopo lunghe pene, a lavorare onestamente. Il quadretto familiare finale è l’improvviso segno dell’amore. Nonostante emergano le perplessità di Ferreri nei confronti dell’istituto matrimoniale e delle sue contraddizioni (poi esplosive in Marcia nuziale), questo epilogo imposto dall’alto ci dice molto sul non detto di un cinema apparentemente goliardico e ineluttabilmente pessimista, ingordo e senza cittadinanza: e cioè un’opera disperatamente bisognosa d’amore, che lo implora per non affogare. E che, non potendolo avere, si vota alla follia e all’autodistruzione. Il cinema di Ferreri è anche tutto qui, in questi tre finali raccolti per occasione ma che ci convincono sempre di più dell’universalità di un’opera a suo modo davvero inesauribile.