“Per quanto mi riguarda avrei voluto nascere sulla luna. […] Non che il nostro pianeta non vada abbastanza bene, purché si sia nati con un gran nome o con una grande fortuna” – attesta ferale il bufalo Sarchiapone, per bocca di Elio Germano, in Bella e perduta – “Questa è la mia storia, l’unica cosa che ho, e me la tengo cara.”

Una storia da raccontare, di fatto, è tutto ciò che possiede Arturo, uno dei passeggeri-protagonisti del primo lungometraggio di Pietro Marcello, Il passaggio della linea: una storia di granitico impegno politico e di incomprensioni giuridiche, la ricerca spasmodica di un’indipendenza che lo ha condotto a vivere sui treni, nonostante i novant’anni di età. “Volevano distruggermi, volevano far vedere che io non esisto” e invece esiste, Arturo, con i ricordi piegati in tasca insieme a un abbonamento del treno che gli permette di sfuggire al ricovero cui sarebbe destinato. La sua voce rotta si confonde con altri dialetti di anime pendolari stipate in vecchi vagoni: storie di emigrazione, solitudine, precariato, documenti e permessi da esibire. Dolori mormorati e all’occorrenza urlati, affinché non vengano fagocitati dallo sferragliare stridente del treno sulle rotaie, un po’ rifugio, un po’ prigione.

Il cinema “documentario” di Pietro Marcello assomiglia a una devota manipolazione del reale: non una registrazione nuda del racconto, ma una sfida allo sguardo e alle percezioni, mai “tracotante” e carica di una cura estrema nei confronti dei soggetti prescelti. È il caso de La bocca del lupo, che giunge con soluzioni imprevedibili a illuminare i carrugi di Genova per raccontare la storia d’amore tra l’ex detenuto Vincenzo Motta e la transessuale Mary Monaco. Il film alterna con naturalezza disarmante scampoli di vita e materiale d’archivio – sapientemente ricercato e montato da Sara Fgaier – dispiegando un racconto che resta tenacemente al servizio delle immagini. In Marcello, del resto, persiste un’autentica venerazione per le molteplici possibilità dello spazio filmico, come ne Il silenzio di Pelešjan, che compone un ritratto attraverso quel “montaggio a distanza” tanto caro al cineasta armeno che sceglie di omaggiare. Non più documento, ma testimonianza indiretta di uno sguardo, non dialoghi, ma silenzi lirici e una frammentazione che segue con riconoscenza la strada tracciata da Artavazd Pelešjan, un “guerriero volontario, senza parole”.

I limiti espressivi si assottigliano grazie al contributo di Maurizio Braucci, che insieme a Marcello firma sceneggiature sempre meno vincolate a convenzioni narrative. Bella e perduta è un elogio fiabesco – non funebre – del compianto Tommaso Cestrone, “l’angelo di Carditello” che curò e difese a sue spese il Real Sito dei Borbone nel cuore della martoriata provincia di Caserta. L’utilizzo del found-footage, la scelta, cioè, di girare in 16 mm utilizzando pellicola scaduta, estremizza ancora una volta la creatività, facendo del budget esiguo un punto di forza. L’onirico viaggio di Pulcinella e Sarchiapone, in qualche modo, spiana la strada al Martin Eden di Jack London, che da Oakland si sposta con rivendicata prepotenza a Napoli in un continuo (e delizioso) back-and-forth temporale. Non sono i mezzi di produzione a plasmare il cinema di Pietro Marcello, ma la sua dedizione: producendo Martin Eden con la propria Avventurosa ne preserva il controllo, fuggendo dalla finzione quando gli aggrada, alternando alle musiche di Daniele Pace e Teresa De Sio gli amati materiali d’archivio e sfruttando la carica prorompente di Luca Marinelli per dipingere corrotte ambizioni borghesi più attuali che mai.

Arturo, Vincenzo, Mary, Tommaso: nomi che non dicono niente a nessuno, o quasi. Pietro Marcello sfugge ai riflettori scegliendo di seguire in punta di piedi esistenze ai margini e storie senza tempo per restituire loro una voce, ma non c’è spazio per facile compassione: è fierezza quella che sorge tra le pieghe di un cinema anacronistico, unico e indefinibile.