Con il suo nuovo film, Vortex (2021, ora su MUBI), ennesimo capitolo di un corpus cinematografico in continuo divenire, il visionario regista Gaspar Noè torna ad esplorare due dei temi cardine della sua filmografia – cioè l’Amore e la Morte, perennemente associati e contrapposti in un “vortice” come parti costitutive della vita – ma lo fa con uno stile parzialmente più sobrio di quello a cui ci aveva abituato: un’estetica, quella precedente, fatta di inquadrature roteanti, luci al neon, piani-sequenza pindarici, musiche psichedeliche, addirittura scene hard nel film Love.
Eppure lo sperimentalismo di Noè non si è assopito né tantomeno si è conformato al cinema mainstream, diciamo piuttosto che si è momentaneamente trasformato in qualcosa d’altro. Perché Vortex, presentato a Cannes nel 2021, è un film profondamente e intimamente “suo” (anche se richiama in parte Amour di Michael Haneke), tanto nelle tematiche messe in scena quanto in alcuni accorgimenti stilistici che il cineasta aveva già sperimentato in precedenza – primi fra tutti, il piano-sequenza (vera ossessione del cinema di Noè) e la tecnica dello split-screen, utilizzata nel mediometraggio Lux Aeterna.
Scritto e sceneggiato dallo stesso Noè, Vortex racconta gli ultimi giorni di vita di un’anziana coppia di coniugi, entrambi lasciati senza nome: lui (Dario Argento) e lei (Françoise Lebrun), che vivono in un appartamento in una cittadina francese e devono far fronte ai malanni della vecchiaia. L’uomo soffre di problemi cardiaci dopo aver avuto un infarto, mentre la donna – una psichiatra in pensione – sta presentando i segni sempre più drammatici dell’Alzheimer: inizia a vagare senza meta in casa o nei negozi, non riconosce più il marito, distrugge i suoi appunti, oppure mette a rischio la loro vita aprendo il gas e preparando cocktail di farmaci.
Lui, al contrario, mentalmente è lucidissimo: è uno scrittore e un cinefilo, e sta scrivendo un libro sui rapporti fra il cinema e il sogno. Nonostante abbia da anni un’amante più giovane, l’uomo non ha mai smesso di amare la moglie, e continua ad accudirla teneramente. Entra poi in scena il loro figlio Stéphane (Alex Lutz), uscito – ma forse non del tutto – dal tunnel della droga, il quale vuole convincere invano i genitori ad andare in un ospizio. La conclusione è naturalmente tragica: dove quel “naturalmente” indica il naturale compiersi di un film che puzza di morte dall’inizio alla fine.
A differenza di vari film di Noè, da Enter the Void a Climax, dove tutto era pregno di un iperrealismo nella forma e nel contenuti, qua siamo agli antipodi, poiché Vortex è una sorta di cinéma-vérité, un cinema verista, senza mediazioni, quasi documentaristico, per certi versi accostabile a certi film della Nouvelle Vague francese; motivo per cui, non è forse un caso che l’attrice protagonista sia la Lebrun, quella de La maman et la putain di Jean Eustache, e icona del cinema francese degli anni d’oro. L’attore che impersona il marito è invece Dario Argento (per la prima volta davanti alla macchina da presa in un ruolo da protagonista), cioè il re del brivido, colui che al cinema ha spettacolarizzato la morte come forse nessun altro.
Una scelta magari in voluto contrasto con ciò che vediamo, poiché in Vortex il trapasso non ha niente di spettacolare, bensì è orrore vero e puro – basti pensare alla scena in cui lo stesso Argento ha un infarto, descritto con tutta l’angoscia traducibile per immagini e suoni (un vero pugno nello stomaco), oppure alle inquadrature realistiche e impietose sui cadaveri. Così come era accaduto in Irréversibile per la celebre scena di stupro, in Vortex Noè mette in scena la morte in tutto il suo orrore e con un naturalismo quasi scientifico nella rappresentazione, lontano dalla fantasiosa psichedelia di Enter the Void, in cui assistevamo al fluttuare dell’anima di un trapassato.
Ma anche nel “cinema verità”, l’autore argentino agisce alla sua maniera, in modo anarchico, sovvertendo le regole dello strumento cinematografico: dopo una breve introduzione a inquadratura unica (e ristretta), con il brindisi fra i due coniugi, ecco che lo schermo man mano si divide in due – come a voler sancire una separazione fra i personaggi – e tutto il resto del film (circa due ore e venti) è girato in split-screen. Dunque, due inquadrature differenti e separate, che ritraggono talvolta scene completamente differenti (spesso i due protagonisti sono divisi) e talvolta la stessa scena vista da un’angolatura diversa (con un voluto effetto di spaesamento), scene spesso girate in piano-sequenza, e qualche volta con le luci rossastre tanto care a Noè.
Eppure la narrazione scorre fluida, dolorosa e commovente, senza scossoni, tenuta insieme da una regia che sa sempre cosa vuole e come ottenerlo, e con una fotografia quasi sempre neutra: Noè descrive e analizza la vita quotidiana dei due coniugi, la vecchiaia, la malattia mentale della donna, le loro azioni, le loro abitudini casalinghe (quasi tutto il film è girato nell’appartamento), fra lo sguardo completamente perso della Lebrun e il volto provato e sofferente di Argento, autore qui di un’ottima performance di “attore/non attore”. Anche in Vortex, come in tutto il cinema di Noè, il corpo è un elemento importante (vedasi il tenero abbraccio fra i due), da quello corpulento della signora a quello avvizzito di Dario, che il regista ritrae in una scena anche a petto nudo, mostrando così il progressivo decadere della bellezza umana.
Vortex pullula di citazioni e amore per il cinema, da Vampyr (preambolo alla morte) a Fritz Lang, con la casa stessa che diventa un vero e proprio mausoleo di locandine, VHS e riviste, quasi una sorta di grande tomba terrena, mentre Argento disquisisce al telefono di cinema e sogno e afferma che la vera esperienza cinematografica è soltanto quella della sala; curiosamente, il film – vivendo di dialoghi, silenzi e rumori – non ha una vera e propria colonna sonora, esclusa la canzone Mon amie la rose di Françoise Hardy che sentiamo all’inizio, e la musica western di Ennio Morricone che scorre verso la fine, mentre il figlio si droga.
“Le temps detruit tout” (“Il tempo distrugge tutto”), dichiarava Noè in Irréversible, e Vortex (con il suo vortice temporale – cioè il ciclo della vita – oltre che spaziale e psichico) ne è la più completa rappresentazione, con la morte che incalza sempre di più: per la prima volta, il regista tratta compiutamente la vecchiaia e la malattia mentale, con l’estrema messa in scena del decadimento fisico e mentale degli esseri umani, e del dolore che tutto ciò comporta.