Un mistero insondabile si racconta volontariamente e senza filtri a una cinepresa. Tutto qui il fascino ambiguo di What He Did. In poco più di un'ora ripercorriamo la strana vicenda di Jens Michael Schau, dalle campagne danesi dell'infanzia alla grande Copenhagen, dalla scoperta della sua omosessualità al 'fun' della scena gay anni '70, fino alla storia di 13 anni con il celebrato romanziere Christian Kampmann e alla scoperta della vocazione letteraria. Poi le crisi depressive che nel 1988 lo portarono all'omicidio del compagno, i sette anni trascorsi in un ospedale psichiatrico e il rifiuto di uscire in strada per paura di essere riconosciuto.


Al riparo in casa sua Jens racconta, provato e titubante ma senza mai risparmiarsi; beviamo con gli occhi ogni frammento di vita quotidiana, dal preparare una torta al rispolverare vecchi dischi, in cerca di un lume che non troveremo. Qualunque cosa abbia potuto sfiorare il cuore di quest'uomo lucido e sofferente, non nuota in superficie. Ha scritto una pièce autobiografica che ora una compagnia di attori si prepara a portare in scena. Le loro parole sono le sue, le azioni quelle che ha conservato negli anni annotandole in decine di taccuini. Tutto è in piena vista e non basta ancora.

Solo una cosa si può dire, ma bisogna somigliare allo Scettico che tratta come un tesoro la consapevolezza di avere le mani legate. Solo un dato appartiene in pari misura al suo trascorso, alla sua condizione attuale e alle parole che pronuncia, pur sempre elaborazioni di un narratore consumato: l'esclusione. Il regista Jonas Rasmussen sa di guardare quest'ometto negli stralunati occhi blu da miglia di distanza. Non potendo avvicinarlo cerca di capire come e quando abbiano iniziato a separarsi la sua strada e quella del mondo. Jens parla di un miraggio che lo aveva abbagliato: la grande città, il periodo giusto, la liberazione sessuale..Rasmussen recupera filmati e canzoni, reimmagina Copenhagen piena di promesse, il suo calore, il suo abbraccio. Arriva il primo colpo: una velenosa lettera del padre che lo invita a "rientrare nei ranghi". Di lì in poi, malgrado la gioia dell'amore per Kampmann, tutto è una lenta e dolorosa separazione; il regista oscilla fra Jens e il palcoscenico dove le sue parole continuano nella bocca degli attori, figure su un fondo nero come singoli fatti - sempre fatti - di una storia il cui senso generale continua a sfuggire.

Gli attori discutono sui personaggi che portano in scena: quella di Jens è la storia di un assassino? Di un amore? Una parabola sul senso di colpa? Sembrerebbero esserci tutti gli elementi per deliberare. "Quello che ha fatto" si sa bene, lui non è restio a parlarne direttamente o nel copione. Ma anche la scrittura è avvelenata. Christian è stato l'unica ancora di salvezza, lo ha fatto sentire accettato e lo ha portato ad esprimersi. Per contro il suo modo liberale di vivere la loro storia si è tradotto in un senso continuo di espropriazione, la sua fama e il suo talento hanno dirottato da Jens ogni attimo dell'attenzione che si era sforzato di cercare scrivendo. “ Normalmente ” - dice - “ uno si sbaglia, sconta una pena e si riabilita. Ma non io. ” E l'impressione è che si riferisca non tanto alle conseguenze del crimine commesso quanto all'incapacità di trovare un contatto stabile. Macchiarsi di una colpa "per cui si tema di essere riconosciuti per strada" è la piatta accettazione di questo iato, continuata con la degenza in ospedale e con l'attuale autoreclusione?

Ogni domanda ne genera milioni. Chi è davvero quest'uomo? Cosa avrebbe potuto essere? Perchè si ostina a non mollare la presa, a chiedersi cosa pensi la gente di lui, a cercare timidamente di uscire allo scoperto dopo decenni di una distanza imposta e poi scientificamente programmata? What He Did si chiude con il protagonista ripreso in campo lungo, controluce, sagome di alberi morti tutto intorno e acqua scura che scorre ai suoi piedi. È una delle grandi immagini di solitudine del cinema degli ultimi anni. Onore a Rasmussen per aver teso una mano al di là del guado.