C’è un dialogo nelle prime scene di Rumore bianco che risulta abbastanza indicativo per spiegare quale direzione Noah Baumbach sembra aver voluto prendere nell’adattare al cinema l’omonimo romanzo di Don DeLillo. Quando Adam Driver, nei panni del professore di studi hitleriani Jack Gladney, torna a casa dopo la giornata di inaugurazione dell’anno scolastico, racconta alla moglie Babette (Greta Gerwig) la bellezza dell’evento, del sistema coreografico di spostamenti, di luci e colori delle station wagon. Alla realizzazione di quest’ultima parte, la moglie ribatte dicendo che avrebbe voluto partecipare più per le persone che per le automobili.

Questa affermazione può essere presa per evidenziare da subito un cambio di registro importante. Ecco cosa, del cinema di Baumbach, è sopravvissuto in questo lavoro: l’attenzione per le cose private (piuttosto che per quelle di sistema), per le famiglie disfunzionali e non (piuttosto che per i singoli individui), per gli aspetti sentimentali (piuttosto che per quelli mortuari e luttuosi). Il tutto votato a una prosecuzione del suo lavoro autoriale che vede nel romanzo di DeLillo un tentativo per spaziare, ma su altri livelli.

I membri della famiglia Gladney vivono la loro vita immersi nell’America degli anni Ottanta, trascinati e inebriati dalla società dei consumi (e dello spettacolo), fino a quando un’esplosione di materiali chimici, l’evento tossico aereo (è aerea la minaccia di questa stagione cinematografica: Don’t Look Up, Nope), mette in ginocchio ogni solida convinzione.

Dalla morte – che prima è spettacolo testimone della grandezza dell’America e poi è paura da esorcizzare ed eliminare – al rapporto tra supermercato e apocalisse (due elementi accomunati e non obbligatoriamente contrapposti come uno salvataggio dell’altro), Noah Baumbach lavora principalmente su un livello estetico. Da un lato guarda al cinema, Spielberg su tutti (prima ancora che, ovviamente, a Stranger Things), dall’altro richiama alla fotografia di Gregory Crewdson e, soprattutto, di Andreas Gursky (si pensi alla sua 99 Cent).

Baumbach mette in moto la “macchina spettacolare” del suo cinema per la prima volta, celebrando quel paradosso dell’esibizione del disastro, decidendo di dare spazio all’azione come mai gli era capitato di fare. Tra esplosioni e inseguimenti costruisce il contrappunto tra uno e tutti, singolo e massa, privato e pubblico, dove la massa è esorcizzazione e il singolo è angoscia. Per un film però molto più interessato, come detto all’inizio, alla via di mezzo delle traiettorie private, familiari e sentimentali (il ruolo del personaggio di Babette) anche in termini di protagonismo e voce narrante.

Questo cambio concede uno spazio di ottimismo, un piccolo ribaltamento di registro, per un film che pur guardando agli anni Ottanta è inevitabilmente legato al presente. E questo lascia una questione non chiusa. Una domanda che rimane aperta: amarezza sospesa o amarezza così tanto palesata da essere accentuata, soprattutto alla luce del contesto Netflix in cui si inserisce il film?