Considerato un film trash quanto un cult, Zardoz rimane un’opera straniante e sorprendente, uno di quei casi in cui collassa la distinzione fra cinema di genere e d’autore. Forte del successo del precedente Un tranquillo weekend di paura, John Boorman sfruttò la libertà di sviluppare un soggetto personale, complesso e non convenzionale, che non venne apprezzato granché quando approdò nelle sale. L’autore inglese fu rimproverato prevalentemente per la sceneggiatura confusa e appesantita da troppe considerazioni filosofiche. Indubbiamente una sola visione non basta per entrare in sintonia con un prodotto così sfuggente, che ibrida fantascienza distopica e mystery, speculazioni sulle implicazioni sociali dell’immortalità e un caleidoscopico impianto visivo/narrativo.

Boorman propone una società che ha abolito la morte, ha pieno controllo sui processi di invecchiamento e può rigenerare i propri membri all’infinito. Sfuggite all’ineluttabilità del tempo, queste persone trascendono la condizione umana perdendo tuttavia ogni sintomo d’individualità. Senza una fine non ci può essere uno scopo, e alcuni di loro sviluppano un’apatia tale da condurli a uno stato di perenne catalessi. Gli altri sono invece eternamente impegnati nella difesa di una società volta all’autoconservazione, una collettività fintamente democratica dove il dissenso viene punito con la reclusione e la perenne vecchiaia.

Uno di questi immortali però, stufo della sua condizione e ispirato da Il meraviglioso mago di Oz, decide di spacciarsi per divinità, sotto lo pseudonimo di Zardoz, in un mondo esterno ridotto alla barbarie. Sceglie fra i suoi adepti Zed e lo manipola allo scopo di ripristinare la morte presso la sua gente. "From the past I seek the future" recita un appunto nella stanza di Zardoz e oltre che tematicamente, anche visivamente il film rispecchia la compressione del tempo in un punto impermeabile al cambiamento.

È un 2293 di case medievaleggianti, con veicoli volanti mastodontici in pietra, cavernicoli seminudi armati di fucile, scienziati onniscienti in toga ellenica. In poche altre opere costumi e ambientazioni giocano un ruolo altrettanto rilevante per la costruzione psicologica del mondo diegetico. Straniante è anche il ritmo del film: dapprima contemplativo e punteggiato da dialoghi minimi, si ribalta progressivamente in un turbinio verboso e psichedelico, contribuendo a generare nello spettatore un senso di intuizione dell’opera, più che di comprensione.

Dal punto di vista esclusivamente tecnico, Boorman riesce a sopperire alla modestia del budget con un uso intelligente degli effetti speciali, che sono pochi e semplici ma estremamente espressivi. La scena del labirintico confronto all’interno del cristallo, con Zed accerchiato dai riflessi di sé stesso e dalle proiezioni degli altri personaggi, è un capolavoro di regia e montaggio realizzato con qualche specchio e un proiettore. La sequenza dell’istruzione di Zed da parte degli immortali, con le nozioni rappresentate da proiezioni luminose che si trasferiscono da un corpo a un altro, è poi la prova che una buona idea batte ogni limitazione di budget.

Amato e odiato, a Zardoz non si può non riconoscere di essere un’opera unica e potente, fosse anche solo per gli ultimi cinque minuti, dal delirio della ritrovata mortalità al trionfo del tempo sulle note della settima di Beethoven.