Prima della proiezione del restaurato Essere donne abbiamo avuto l’opportunità di intervistare, la prima documentarista donna italiana, Cecilia Mangini. Il suo documentario, opera ostacolata dal clima politico dell’epoca, è tuttora una delle opere più importanti realizzate sulle condizioni di vita delle figure femminili negli anni Sessanta e alcuni aspetti sono più attuali di quanto si possa immaginare. Cecilia Mangini ha voluto iniziare l’intervista dicendo qualcosa ai giovani aspiranti registi e amanti di cinema presenti, e non, per filmarla.

Da dove cominciamo?

Ho una dichiarazione da fare. Quando volevo fare cinema, sapevo di una scuola a Roma molto prestigiosa, una bella mattina, all’epoca vivevo a Firenze, ho preso il tram e sono arrivata fin là. Sono poi andata all’ufficio informazione e ho detto: “ditemi tutto quello che serve, qui da voi, per diventare regista". Mi hanno guardata sbalorditi e hanno risposto: “no, impossibile. Le donne non possono fare regia". A quel punto gli chiesi che cosa potessero allora fare le donne e mi risposero: “Ah, tante cose. Le sarte, le costumiste, le truccatrici, l’aiuto truccatrici, il taglio del negativo, ecco cosa possono fare le donne”. Sono rimasta allucinata, perché solamente gli uomini potevano fare regia! Così decisi che avrei fatto comunque regia e avrei cercato di fare di tutto pur di farla, però era una specie di sogno. Fino a quando un bel giorno mi hanno chiamata e mi hanno proposto di fare un documentario ed io sono quasi svenuta dalla gioia. E quindi beati voi ragazze e ragazzi che potete fare cinema. Tutto è libero, tutto è permesso, spero che non facciate film né maschilisti né soprattutto femministi con le quote rosa che trovo addirittura indecente perché siamo tutti uguali, siamo tutti persone. Quindi auguri per aver scelto forse il più bel lavoro del mondo, almeno per me.

Oggi viene presentato in versione restaurata il suo film Essere donne ci può parlare di quest’opera?

Farete cinema e sapete benissimo che esistono cose che avete fatto alle quali siete enormemente affezionati e altre meno, è così. Essere donne è fra i miei lavori quello a cui tengo di più e sono maggiormente affezionata perché questo documentario è stato giudicato da quella che era la democrazia cristiana che aveva il terrore infimo di qualsiasi idea e scopo di sinistra così aveva inventato un meccanismo per arginare il problema. Siccome per la legge di allora il documentario veniva abbinato ai film, in quanto si pensava che uno spettacolo doveva essere fantasia, ma anche un richiamo alla realtà. Per il documentario esisteva una commissione di qualità la quale decideva se il documentario aveva le caratteristiche tecniche e artistiche per poter essere visto perché se era una cosa confusa, malfatta era inutile farla arrivare nelle sale e poi era necessario avere un visto di censura. La democrazia cristiana che negli anni Sessanta faceva il bello e il cattivo tempo ha deciso che le commissioni di censura e di qualità dovessero oltre a censurare dare un giudizio estetico sul documentario. Al tempo Essere donne non è stato censurato perché la censura ricorreva prepotentemente e i giornali schiamazzavano, le riviste di cinema protestavano, venivano inviate petizioni ai ministri e quindi per questo mi diedero il visto di censura. E dunque questo film, che era andato al festival di Lipsia, ed era stato visto da Joris Ivens, Paul Rotha e John Grierson le eccellenze di allora. Nomi che, forse oggi non dicono niente, ma che allora erano il meglio, hanno dato al mio film il premio della giuria, cosa che mi ha dato una felicità incredibile. Queste persone, alle quali io credevo moltissimo, hanno creduto in me. A Roma la commissione di qualità ha detto “che schifo, che mostro, non funziona nulla, non funziona niente”. E quindi Essere donne non ha mai potuto circolare nei cinema perché era malfatto, orribile. Voi lo vedrete e deciderete. Tenete conto che in questa commissione c’era un regista democristiano, si chiamava Regnoli, il quale aveva fatto due film in vita sua, uno non me lo ricordo, ma l’altro è importantissimo, capirete il livello di cultura, perché si chiamava Bellezze in moto-scooter di cui era lo sceneggiatore. È poi successo che avendo un visto di censura Essere donne è andato dappertutto: al cinema dell’Arci, nei Cine Club, nei cinemobili del Partito Comunista e Socialista che andavano nei paesi e proiettavano nelle piazze di notte questi documentari. Essere donne è andato a Cracovia, ha girato il mondo e di recente è stato anche in Pakistan e quindi devo dire che è una fortuna che non gli abbiano dato il premio di qualità, giudicandolo uno schifo, perché in questo modo è riuscito ad andare dappertutto.

Pensa che Essere donne sia ancora attuale per una certa condizione femminile? Perché ci sono molte donne che nel film si confidano con lei, mentre altrettante hanno paura e che quindi erano costrette a darle le spalle.

Allora, io ritengo che il fatto che esistano delle quote rosa sia una vergogna perché le donne sono brave e hanno tutto il diritto di diventare quello che vogliono e non perché c’è una quota che viene loro attribuita per legge.

C’è una ragione in particolare per cui ha continuato nel corso del tempo a fare documentari?

Innanzitutto quand’ero molto giovane c’era il Neorealismo e c’era la necessità di raccontare ciò che era reale, non immaginario, non fantastico, non inventato lì per lì, quindi la realtà vera, dura, crudele, bella e c’era una grandissima voglia di raccontare l’Italia come era allora. Un paese che anche se ve lo descrivessi sarebbe difficile per voi appropriarvene interiormente perché era un paese in cui era bello mangiare poco per le classi sottoposte. Ho girato un documentario nella terra del mezzogiorno e a fine riprese abbiamo aperto un pranzo a tutta la troupe, ma anche a chi aveva partecipato e c’era un ragazzo molto bravo e bello della Basilicata che non prese l’agnello arrosto. Così gli chiesi perché non mangiasse e lui mi rispose: “ non è né Pasqua né Natale, la carne non si può mangiare!”. Questo per dire che cos’era l’Italia, quella terra in cui si era felici pur di mangiare pane e cicoria. La gente si nutriva anche di fichi secchi perché è un alimento ricco di zuccheri, proteine, infatti era un grande aiuto poiché lo zucchero non si comprava, era una cosa carissima, irreale da raggiungere. Questa era l’Italia di allora e raccontarla nei documentari era bello, perché oltretutto le persone, spesso analfabete, raccontavano loro stesse, impersonavano se stessi e quello che rappresentavano nella società con una spontaneità strepitosa, bastava metterli a loro agio. Perché adesso si sta davanti alle macchine da presa, ma allora si stava dietro e si aveva una posizione di privilegio: io domino e tu sei il dominato. E nonostante questo i ragazzi, le donne, i vecchi e anche i bambini si sentivano accolti. Io ero dalla loro parte anche perché vedete esistono i tre principi della Rivoluzione francese Liberté, Égalité, Fraternité e anche se tutti direbbero che il più importante è Liberté non è così, è Égalité il più importante. Siamo tutti uguali e l’uguaglianza è una cosa di un’importanza tale che altroché il manifesto del Partito Comunista, altroché Lenin, anche perché poi lì le cose sono molto cambiate e attorcigliate su loro stesse. L’essere tutti uguali uomini e donne dà un forte senso di alleanza e anche di libertà perché siamo liberi da vincoli che ci impediscono di fare quello che sentiamo dentro, o che io sento dentro di voler fare.

Può condividere qualche ricordo su Lino Del Fra?

L’ho nominato stamani perché c’è qualcuno che ha scritto dei bei libri su Elio Petri. Petri è stato un grandissimo regista e chi se lo ricorda più? Io chiamo questo ordine di registi estremamente importanti i desaparecidos perché Lino Del Fra, Elio Petri e altri sono scomparsi. La scomparsa delle persone è una censura, non sembra, ma è una censura, molto mascherata, di persone che dicono le cose che dovrebbero impegnarci. Impegnarci così tanto può essere un fastidio e quindi diventano fastidiosi. Lino Del Fra diceva che era difficile, nelle condizioni di allora, fare cinema, ma che lui continuava testardamente a provare e tutto questo disturbava perché incitava le persone a continuare, a provare, quando tutta la politica culturale era concentrata sul mettere le cose a tacere, senza parlarne. C’erano tante cose inutili oppure senza importanza e incitavano a parlare di quelle. Questo è quanto di peggio si possa dire, perché il cinema e la regia sopratutto è quella che culturalmente ha un peso incredibile. Pensate che Mussolini l’aveva capito, il Centro Sperimentale di Cinematografia e Cinecittà li ha fatti costruire lui perché il cinema condiziona le persone, tant’è vero che in tempi in cui il maschilismo trionfava le donne erano veramente sottomesse. Avevano ruoli mai di diligenza, mai di creatività erano al massimo belle, affascinanti e una grande presenza cinematografica e lì si fermavano, non avevano nulla da insegnare. Avete un manifesto con Jean Gabin ecco lui insegna qualcosa perché non è un femminista, ma uno che cerca l’uguaglianza.

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Vi voglio far ridere, posso? Ecco io come sapete sono andata ad una scuola fascista e ho fatto anche un giuramento al regime ve lo dico perché così insieme ci ragioniamo: “giuro di difendere con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della rivoluzione fascista.”. Io quindi sono pronta a morire per una causa, sono una persona di un’importanza enorme, ho una grandezza interna e non mi riconoscono come donna perché la mia grandezza interna, per aver fatto questo giuramento, è importantissima. E io credo che il mio essere attratta dal femminismo, prima ancora che il femminismo esplodesse, venga da questa sensazione, perché molto presto decisi di non voler essere una casalinga. Quindi ho cercato di scrivere, fare articoli e un po’ di tutto anche fotografie per i rotocalchi perché erano soldi che arrivavano. Questo fatto dell’importanza di avere una causa mi ha aiutata enormemente dopo. Per fare un esempio, c’era il sabato fascista che era quando andavamo a marciare per le strade, prima c’erano i Balilla, i ragazzini, e dopo venivano le piccole italiane, le donne di sei anni, e bisognava avere una divisa pagata dalla famiglia e mia madre non l’acquistava e non mi mandava perché lei riteneva che le bambine dovessero stare a casa con la mamma, imparare l’uncinetto, il pianoforte quando c’era la possibilità e basta. Siccome non comprava la divisa venne chiamata e minacciata di incorrere in una sanzione così finalmente la comprò e io andai a marciare per le strade, dietro ai Balilla, ma marciavo. Non ero più confinata in casa, il fatto di andare a marciare per le strade, va bene dietro ai Balilla, era una cosa di un’importanza grandissima che a voi oggi fa ridere. Vi può far ridere oggi l’idea che marciare per le strade sia stata una conquista enorme, però è stato così in quella circostanza, è come se a quel ragazzo della Basilicata fosse stato concesso di mangiare carne una volta a settimana.