Figli è il film tratto dal monologo I figli ti invecchiano scritto da Mattia Torre e recitato da Valerio Mastandrea nell’ultima edizione di E poi c’è Cattelan, poco prima della scomparsa del suo giovane autore nel luglio 2019. Il monologo si mostrò da subito un testo molto potente, condensando in meno di sei minuti, luci ed ombre, gioie e dolori, ansie o difficoltà di chi mette al mondo un figlio, oggi, in Italia. Torre stesso durante la lunga malattia ha potuto lavorare fianco a fianco con il regista Giuseppe Bonito (opera prima Pulce non c’è, 2012), per studiare il progetto che avrebbe trasformato il monologo in un film (una commedia) prodotto da Wildside e Vision Distribution.
Sara (Paola Cortellesi) e Nicola (Valerio Mastandrea) sono una coppia di over forty che si trova, quasi per sbaglio, a sperimentare l’ebbrezza del secondo figlio, dopo aver a malapena superato gli sconvolgimenti emotivi, fisici, economici, logistici, della primogenita. In un susseguirsi concitato di momenti tragicomici, spesso ritratti con la ferocia surreale tipica della penna di Torre, le vicissitudini della coppia tracciano un affresco assolutamente attendibile e veritiero delle condizioni umane e sociali in cui si trovano oggi due comuni cittadini italiani che scelgono di diventare bis-genitori.
La sceneggiatura si nutre di luoghi comuni (i figli ti sconvolgono l’esistenza, non ti fanno dormire la notte, mandano in crisi la coppia, dici addio alle feste danzanti, e sei costretto alle mascherate di classe con gli altri genitori) che però funzionano in senso positivo, ovvero autorizzano chi li subisce a condividerli con i propri simili, a uscire dall’anonimato e “confessare” pubblicamente quello che è ormai un disagio collettivo. Se fai i figli, in Italia, sei solo. Non solamente da un punto di vista umano (nemmeno i nonni aiutano più), quanto economico, politico e sociale. Perché il peso della più importante arma contro l’invecchiamento della popolazione e il progressivo impoverimento economico del vecchio continente, la procreazione, è totalmente scaricato sulle spalle di piccoli individui “coraggiosi” quando non piuttosto avventati.
Figli diventa così il suggello di una certezza che avevamo già imparato a nutrire: le sceneggiature di Mattia Torre sono terapie di gruppo involontarie, che curano con risate amare gli spazi lasciati vuoti dalla società contemporanea, una società schizofrenica che ti fa sentire in colpa se decidi di non procreare, ti assilla con le mille aspettative da genitore perfetto, ma non contribuisce col benché minimo sostegno al carico psicologico, economico e sociale portato dalla genitorialità. Forse è per questo che gli spettatori del film riempiono la sala di grasse risate liberatorie, perché davanti ai testi impietosi di Mattia Torre siamo tutti consapevoli delle tragiche verità, in primis sociali, che esse radiografano impietosamente.
E di “tragiche” verità, Torre ne ha descritte una per ogni epoca della sua (pur breve) vita, facendoci ridere non poco. Così abbiamo amato prima Alessandro (Alessandro Tiberi) lo stagista della fortunatissima serie Boris, ultima ruota del carro e vero e proprio “schiavo” maltrattato dai suoi superiori in una infinita successione di “caffè per la troupe” e “controllo di stativi”, poi il regista René (Francesco Pannofino), che avendo un grande rispetto per il suo lavoro spessissimo chiede pubblicamente scusa per la scarsa qualità delle scene che realizza, e infine Luigi (Mastandrea), l’ autobiografico malato terminale de La Linea verticale, sballottato di qua e di là dalla malattia in mezzo alle corsie asettiche di un ospedale, in una gustosa satira sul sistema ospedaliero italiano e sul concetto stesso di degenza.
La forza dei testi di Torre sembra essere nascosta proprio in questo italum acetum, la capacità di illuminare con una battuta sagace i particolari difetti, le storture di una comunità che rifiuta di prendere coscienza dei suoi stessi problemi e ne rimanda le soluzioni. "Andrà tutto bene" è la frase che ritorna come un mantra per tutto Figli creando un effetto comico esilarante proprio perché, in antinomia con tutto il resto della catastrofica narrazione, finisce per suonare come una presa per i fondelli. Ecco il cuore pulsante dello stile Torre, la particolare abilità di mettere in luce le contraddizioni delle persone e del mondo, per riderci su, e ridendoci accettarle. Così anche se i suoi film saranno spesso costellati di climax impietosi come questo "I figli ti fanno sentire inadeguato, non ti senti all’altezza, insomma ti senti una merda, io sono una merda, va bene?", il nucleo della sua scrittura resta ancorato ad una inguaribile fiducia nella vita e nel genere umano, che non gli fa mai disperare in una possibile occasione di crescita o riscatto . È questa la lezione che Mattia Torre ci ha dato, o almeno è questa che noi abbiamo voluto apprendere, sorridendo.
Siamo certi che se la vita fosse stata più generosa con lui, se avesse potuto dirigere egli stesso il suo ultimo film (come era in programma), la commedia si sarebbe nutrita di effetti comici più accesi e duraturi e di un ritmo meno diluito, non avrebbe prevalso infine una sorta di pessimismo latente e soprattutto ci sarebbe stata una svolta drammatica più decisiva nella seconda parte. Ma poiché il cast funziona alla perfezione (Cortellesi e Mastandrea insieme sullo schermo emanano una familiarità intima e realistica, Giorgio Barchiesi, il "Giorgione" dei fornelli in TV, nei panni del suocero è una piccola rivelazione), il soggetto è necessario e urgente in una società della rimozione, perdoniamo ogni piccolo difetto a questo film, che leggiamo come epitaffio di un grande autore, che ancora molto avrebbe avuto da raccontarci su questo mondo.