A Chiara Frugoni. La dedica alla (grande) medievalista italiana nell’incipit di Chiara dice molto sul film di Susanna Nicchiarelli. In un percorso che continua a indagare figure femminili enigmatiche, la regista attinge a piene mani dal lavoro della Frugoni — scomparsa lo scorso aprile dopo aver collaborato attivamente alla sceneggiatura — per de-costruire ancora una volta il film storico e le sue aspettative. E dopo Nico, 1988 e Miss Marx, Chiara persegue un intento davvero ambizioso, forse il più ambizioso della carriera della Nicchiarelli: coniugare monografia storica e religiosa raccontando una sfida aperta alle dinamiche di un potere costituito.

Perché Chiara d’Assisi? Perché anche lei, come Christa Päffgen (Nico) ed Eleanor Marx, fu oscurata da figure maschili ingombranti. Ce lo ricorda proprio la Frugoni che di Chiara “scrissero soprattutto uomini: il biografo, il papa e le gerarchie ecclesiastiche, scrissero tutti per farla dimenticare.” La sua storia coincide con un sogno di rinnovamento in contrasto con i principi patriarcali e religiosi (del suo tempo, ma anche del nostro). Un sogno costretto tra le mura di un monastero, quando avrebbe voluto raggiungere il resto del mondo. E più della “storia di una santa”, il film della Nicchiarelli diventa semplicemente la “storia di una ragazza”, della sua forza, delle sue debolezze e del suo carisma.

Musica, politica, fede. La “trilogia femminile” (ideale o solo immaginata da chi scrive) di Susanna Nicchiarelli fa luce proprio su questi tre macro-temi, scegliendo diversi angoli di mondo per sviscerarli intimamente e socialmente. E di primo acchito, Chiara sembrerebbe prediligere un discorso appassionato sulla fede per raccontare prospettive di agognatissima rivoluzione. Ma con i suoi “saltarelli” corali, Chiara flirta col musical più di quanto non faccia Miss Marx, trasformando i momenti di danza e canto in atti di esorcismo liberatorio, proprio come facevano le canzoni per Christa in Nico, 1988. E il discorso politico si palesa come altrettanto vivo e pulsante nel conflitto tra Chiara (interpretata da Margherita Mazzucco), l’amico-avversario Francesco (Andrea Carpenzano) e Gregorio IX (Luigi Lo Cascio), al punto da rendere più nitido un verosimile fil rouge.

Un progetto ambizioso, dicevamo. Ancora di più se si pensa che gli attori siano qui invitati a recitare in volgare umbro, complicando notevolmente il lavoro sul film. Si può quindi considerare l’opera della Nicchiarelli come uno studio che cerca di accompagnarsi a un tentativo (già noto) di tradimento della tradizione scenica. E se è ben percepita la fatica nel tenere bilanciati biografia, leggenda e anticonformismo con espedienti classici e sfacciatamente contemporanei (come il brano Le cose più rare di Cosmo, posto in chiusura), non si può prescindere dal considerare positivamente la mole di lavoro che circonda Chiara. Con tutti i suoi difetti.

Mentre menzioni d’onore vanno alla fotografia di Crystel Fournier e ai bellissimi costumi di Massimo Cantini Parrini (già David di Donatello per Miss Marx e candidato agli Oscar per il lavoro sul Pinocchio di Garrone e il Cyrano di Joe Wright), persiste un forte senso di straniamento. Rispetto ai precedenti lavori, è come se le intuizioni di “rottura” circa i limiti della monografia risultassero frammentarie e claudicanti. Ciò finisce per impattare anche sulla direzione attoriale, rendendo convincente ma a tratti molto insicuro il duo Mazzucco-Carpenzano. Tuttavia, il lavoro sulle musiche, sulla valorizzazione del paesaggio naturale e non, fa di Chiara un film di “ricerca”, in tutti i sensi possibili. Ricerca storiografica, ricerca di una chiave narrativa e immaginifica, ma anche di una dimensione interiore che riesca a farsi collettiva. E laddove la strada sembra smarrita, le scelte visive corrono a far luce.

Non sarà un film perfetto, ma è indubbio che Chiara sia un film pieno d’amore. Amore per la storia che racconta, amore per la protagonista e per le sue motivazioni, amore per la terra e per il tempo in cui si svolge. Amore per il grande cinema italiano di costume e religioso (Rossellini e Pasolini su tutti, “oltraggiati” e omaggiati), amore per tutto ciò che possa recidere i legami con quello stesso cinema. Amore per tutto ciò che non è stato raccontato. Amore per le potenzialità del cinema. Un amore che finisce per sovrastare il film stesso, ingessato in una ricercata naturalezza, ma che si fa portavoce di una adorabile fragilità.