Emilia-Romagna: regione di teatri, pittori e, quindi, di cinema. È pressappoco questo l'assioma che Renzo Renzi individua nel saggio Una terra di cineasti come giustificazione del gran numero di uomini di cinema nati tra Piacenza e Rimini. Se, da un lato, la tradizione teatrale emiliana, così fiorente da potersi esprimere oggi in ben centosedici teatri storici, ha modulato un imprinting di familiarità verso la dimensione drammaturgica in tutta la ricchezza delle sue componenti (scrittura, scenografia, attorialità), dall'altro è presente in Emilia Romagna un patrimonio pittorico che, come in poche altre regioni, si è espresso nel corso della propria storia in maniera variegata. Pur con percorsi differenti, hanno vantato fortuna critica e popolarità le dame sofisticate di Giovanni Boldini, le bestie di Antonio Ligabue, il  realismo della famiglia Carracci, la dimensione sospesa di Giorgio Morandi, i momenti di socialità contadina di Gino Covili e le ricerche colte di Parmigianino, Correggio, Guercino, Cosmé Tura e gli altri grandi del Rinascimento.

Naturalmente come gli elementi teatrali e quelli pittorici abbiano avuto un ruolo centrale nella creazione e sviluppo del linguaggio filmico è tema ampio e trasversale tra le diverse cinematografie; tuttavia resta suggestivo soffermarsi su qualche esempio rispetto a come l'ardente tessuto culturale emiliano-romagnolo abbia portato registi e direttori della fotografia a trasmettere sullo schermo elementi propri della tradizione figurativa, lasciandoci in eredità un vero e proprio compendio dell'epoca del visibile locale dalla tela fino alla cinepresa. Se già le dame dell'alta società ferrarese dipinte da Giovanni Boldini (1842-1931) furono tra le principali ispirazioni per definire i parametri del divismo femminile del muto italiano, a cavallo tra eleganza sofisticata e spregiudicato fascino decadente, è nella generazione dei grandi registi influenzati dalla cultura del Neorealismo che si può individuare con maggior chiarezza la riproposizione, più o meno programmatica, di modelli pittorici .

Prendendo come punto di partenza della propria indagine la realtà reale, artisti come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini o Michelangelo Antonioni hanno poi maturato linguaggi diversi, ma tra i quali uno dei punti in comune sembrerebbe essere proprio la memoria degli artisti conterranei. La tradizione pittorica come punto di riferimento per non smarrirsi in un labirinto di immagini/percorsi possibili; il quadro come come oggetto reale, tangibile, custode nel suo contenuto della memoria stratificata, e altrettanto reale, della propria terra. Spazio privilegiato di queste proiezioni, difficile dire quanto intenzionali e quanto inconsce, sono senz'altro i film ambientati nella stessa Emilia Romagna. In Novecento (1976) Bertolucci, nonostante qualche smentita, sembra aver intrapreso una lunga ricerca pittorica i cui riflessi si trasmettono sul film per tutta la sua durata.

Se il fiero avanzare verso il sole dei popolani del Quarto Stato (1898-1901, dipinto dal piemontese Giuseppe Pelizza da Volpedo) appare nei titoli di testa come una vera e propria dichiarazione programmatica (raccontare come la storia di ogni uomo sia la storia di tutti gli uomini) ancor più interessante è osservare come il film riproponga visivamente un vero e proprio compendio di dipinti a soggetto contadino. La fotografia, i tagli dell'inquadratura e le composizioni richiamano, volta per volta , gli sguardi di Gustave Courbet, Jean-François Millet, Giovanni Segantini, Vincent Van Gogh (l'intera vicenda del contadino che si mutila un orecchio pare essere un omaggio) ma ancor più evidenti sembrano essere gli echi emiliani: le costruzioni e la tensione naturalistica del tardo-cinquecento bolognese incarnato da Annibale Carracci (divertente la citazione del Mangiafagioli, 1584-85) fino alla pittura ruspante di Gino Covili da Pavullo, a cui sembra essersi ispirato Vittorio Storaro per fotografare gli interni affollati dei casolari (Discussione per la formazione della cooperativa, 1975).

La familiarità di Bertolucci nei confronti di elementi della storia dell'arte visiva e la commistione tra grandi nomi internazionali e pittori locali si era espressa già con chiarezza nella Strategia del ragno (1970) dove alle inquietudini silenziose di Giorgio De Chirico e ai paradossi di René Magritte si affianca il reggiano Antonio Ligabue. Anche in questo caso Bertolucci sceglie un dipinto per i titoli iniziali, optando questa volta per un'opera del folle di Gualtieri (Testa di tigre, 1956) le cui tinte espressionistiche si ritrovano in gran parte delle scelte di fotografia operate da  Storaro e Franco di Giacomo per gli esterni di tutto il film. L'estro di Ligabue e, più in generale, i modelli degli artisti naif, sembrano trovare un attento estimatore anche al lato opposto della regione. Nei volti caricaturali dei personaggi di Federico Fellini, a sua volta bravo disegnatore, riecheggiano i tratti grotteschi e le soluzioni espressive proprie di questa tendenza pittorica. Similarmente al grande regista riminese l'impianto figurativo dei pittori irregolari della Pianura Padana sembra plasmarsi attraverso una singolare amalgama tra sogno, fantasia, memoria e talvolta sublimazioni di angosce che non poteva che interessare Fellini, notoriamente appassionato di tematiche psicanalitiche.

La carrellata di buffe macchiette di Amarcord (1974) è forse l'esempio più chiaro in tal senso, ed ancora una volta, come in un gioco di specchi, la memoria di una terra e dei suoi abitanti trasmutata al cinema richiama tracce della tradizione pittorica, in questo caso la più sanguigna e assieme la più visionaria. Se lo zio matto interpretato da Ciccio Ingrassia ricorda fisicamente e negli atteggiamenti Antonio Ligabue, esiste una certa analogia tra le figure femminili ed i ritratti su cartone di Pietro Ghizzardi da Boretto, a sua volta spesso riformulati da fotografie di dive del cinema pubblicate su qualche rivista. Sono donne accomunate dalla medesima intensità fisiognomica, dalla sessualità sfacciata, protagoniste in atteggiamenti e smorfie che assieme ripugnano e attraggono ma che, fatalmente, catturano l'occhio ingenuo (in francese, appunto, naïve) sia dell'umile pittore contadino che del Fellini adolescente protagonista del film.

Alla parte opposta degli espressionismi di Ligabue e Ghizzardi si potrebbero collocare, nel grande catalogo della pittura emiliana del Novecento, gli infiniti silenzi del bolognese Giorgio Morandi che rappresenta una delle personalità del mondo della pittura verso la quale guardano con maggior interesse i grandi registi italiani del Novecento. Le sue nature morte vengono appese alle pareti e diventano sia fonte di dibattito tra i protagonisti (ancora Fellini in una celebre scena della Dolce vita, 1960) che riferimenti simbolici agli stati d'animo dei protagonisti, come nel mirabile utilizzo che ne fece Michelangelo Antonioni l'anno successivo nella Notte (1961, curiosamente entrambe le scene sono interpretate da Marcello Mastroianni). L'affinità e gli scambi epistolari tra il regista di Ferrara, occasionalmente pittore, e Morandi sono cosa ben nota, così come piuttosto evidenti sono le influenze di quest'ultimo in tutta la tetralogia dell'incomunicabilità dei primi anni Sessanta (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso) a partire dal lavoro sugli attori. Similarmente alle bottiglie di Morandi, gli interpreti di Antonioni sono spesso spogliati della propria espressività a favore, piuttosto, di indagini formali. Sono anch'essi contenitori di universi emotivi e sottoposti alle più svariate esplorazioni, siano esse in rapporto alla luce che li colpisce o agli schemi architettonici ai quali appartengono. Situazioni mute, rarefatte, nelle quali lo spazio scenico diventa, piuttosto, spazio mentale.

E il dialogo tra i due grandi diventa ancora più chiaro nel primo film a colori di Antonioni: nel Deserto rosso i riferimenti all'arte contemporanea sono tra i più diversi (dall'informale materico di Alberto Burri ai paesaggi industriali di Mario Sironi) ma è nell'uso deliberatamente espressivo e straniante del colore, soprattutto nelle scale di grigi delle sequenze girate nel centro di Ravenna, che ritorna la lezione del maestro bolognese. Gli esempi di dialoghi riportati rappresentano solo una piccola selezione sia all'interno delle ispirazioni degli autori Bertolucci, Fellini e Antonioni sia nel campo, ben più ricco, della produzione cinematografica emiliana. Un intero saggio si potrebbe dedicare al peso che le lezioni di storia dell'arte di Roberto Longhi, bolognese d'adozione e modenese d'origine, ebbero sull'estetica dei film dell'allievo Pier Paolo Pasolini che a Bologna nacque, su come una certa pittura di paesaggio abbia contribuito a definire i tratti del gotico padano di Pupi Avati o su quanto la passione giovanile per l'espressionismo tedesco abbia influenzato Marco Bellocchio. La selezione, pur dolorosa, è necessaria ma ribadisce, pur indirettamente, la ricchezza culturale dell'Emilia Romagna: terra generosa e fertile di pittori di cinema e di registi di pittura.