Messo in secondo piano dal contiguo Roma ore 11 (Giuseppe De Santis, 1952), che col passare degli anni continua a stupire per rigore e passione, Tre storie proibite si ispira allo stesso fatto di cronaca: il crollo di una scalinata in cui circa duecento donne erano ammassate per fare un colloquio di lavoro. A differenza di De Santis, che incaricò Elio Petri di compiere un’inchiesta sulla vicenda, con l’obiettivo di partire dalle esperienze di vita delle ragazze per tracciare un ritratto sulla disperazione postbellica delle classi più umili, Augusto Genina sceglie tutt’altro approccio.
E non potrebbe essere altrimenti, giacché era più che distante dagli strumenti del neorealismo per realizzare il suo cinema fieramente popolare con lo stile di chi ha fatto esperienza fuori dai confini nazionali. Ora, affrontare oggi Tre storie proibite senza considerare il capolavoro di De Santis è particolarmente ostico, anche perché il trascurato film di Genina segue una strada meno facile da inquadrare. Come detto dal titolo, trattasi di film ad episodi con un occhio rivolto allo spirito di Nessuno torna indietro (Alessandro Blasetti, ’43) e un legame esplicito con quel cinema melodrammatico piccoloborghese alla Domani è troppo tardi (Léonide Moguy, ’50).
Ricoverate dopo il crollo, tre ragazze ripercorrono la loro vita precedente al dramma: due ne parlano fra loro, la terza, in fin di vita, esplode sotto i ferri in ricordi dovuti alla somministrazione dell’anestetico. La prima storia, molto mélo, è quella di Renata (Lia Amanda), che in seguito ad una violenza infantile non riesce a fidarsi degli uomini, fino all’incontro con un ingegnere (Gabriele Ferzetti), la cui famiglia sembra esserle ostile. Quindi è il turno di Anna Maria (Antonella Lualdi), malmaritata ad un ricco industriale nullafacente, maligno e radioamatore (Enrico Luzi), un racconto grottesco e quasi assurdo. Infine, la parabola crudele di Gianna (Eleonora Rossi Drago), figlia di un blasonato docente di Diritto romano (Gino Cervi), precipitata nel gorgo del peccato.
Per storie proibite s’intendono i percorsi delle ragazze fuorviate dalle meschinità della vita che devono compiere un percorso di redenzione per poter vivere senza inganni. A non convincere è la cornice: perché scomodare la tragedia della scalinata, cioè il segno dell’esigenza di un lavoro per emanciparsi dalla miseria, per giungere alla conclusione che solo il matrimonio può salvare le ragazze? Il destino della povera Gianna, tra l’altro, sta lì proprio a dimostrare quale sia, in una visione moraleggiante, l’unica espiazione possibile per chi pecca. Certo, Genina e i suoi sceneggiatori hanno l’ardire di trattare temi abbastanza spinosi (specie la tossicodipendenza, benché la messinscena dei festini sia troppo condizionata dalla censura preventiva), ma Tre storie proibite pare un’occasione mancata.