Una spider gialla sfreccia ad alta velocità nella notte. Sullo sfondo, un bosco azzurrognolo di torri petrolifere e pali del telegrafo. Alla guida c’è un uomo ubriaco che attraversa una piccola cittadina e poi rincasa in una villa padronale. Entra in uno studio e ne esce barcollante per poi cadere a terra, vittima di uno sparo che lo spettatore ha solo udito. Attraverso la porta spalancata della casa entra un vortice di foglie secche sulle note di Written on the Wind del famoso quartetto pop The Four Aces. Con questa corsa incontro alla morte - che ci porta in pochi minuti dagli esterni texani agli interni borghesi dell’America anni ’50 - Douglas Sirk apre Come le foglie al vento, uno dei suoi migliori e famosi melodrammi.
L’uomo al volante è Kyle Hadley (Robert Stack), figlio di un ricco petroliere texano. A lui, rampollo indolente e con problemi di alcolismo, il padre ha sempre preferito il suo migliore amico, il tranquillo e solido Mitch Wayne (Rock Hudson), proveniente da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. La sorella Marylee (Dorothy Malone) è da sempre e apertamente innamorata di Mitch, che a sua volta si innamora di Lucy Moore (Lauren Bacall), moglie di Kyle. E tra gli stessi Mitch e Kyle il rapporto di amicizia sembra sconfinare in un legame tossico di dipendenza. Un quadrilatero amoroso insomma, i cui vertici brillano per mancate corrispondenze, in una cupa asimmetria di desideri che oscilla fra amore e morte.
Se da un lato Lucy e Mitch (una Lauren Bacall e un Rock Hudson all’apice di successo e bellezza) incarnano con dosata presenza scenica i personaggi più stabili e positivi della vicenda, i veri protagonisti risultano essere Marylee e Kyle (una Dorothy Malone che per questo ruolo vinse l’Oscar nel 1957 e un Robert Stack di straordinaria e drammatica intensità), entrambi consumati dalla nostalgia di un’età dell’innocenza e di una felicità sfuggita per sempre.
L’intera pellicola è infatti attraversata dai due elementi che compaiono subito nel prologo: una sotterranea seppur evidente vena di erotismo e un senso opprimente di tragico destino. Sullo sfondo rimane inoltre il tema della ricchezza portatrice di infelicità, argomento molto caro a Sirk, che solo due anni prima, nel 1954, ne aveva fatto la materia principale di Magnifica ossessione. “C’era una volta un povero ragazzo ricco” fa dire il regista a Marylee mentre si prende gioco del fratello. Ma se il denaro rimane un indelebile peccato originale, quello che qui vuol mettere a fuoco il regista tedesco - emigrato in America nel ’37 in fuga dal nazismo - è l’irrecuperabilità del paradiso perduto.
Dal prologo Sirk fa partire un lunghissimo flashback che arretra di un anno e fa iniziare la vicenda nell’ottobre del ’55, quando Mitch presenta Lucy, una giovane e bella segretaria newyorkese, al suo ricco amico Kyle. L’epilogo della storia si riallaccia poi in modo circolare al prologo, andando a definire gli avvenimenti che inizialmente la macchina da presa filma dall’esterno della casa, come se lo spettatore potesse solamente spiare le vicende dalla soglia della porta di entrata o dal vetro delle finestre.
Il gioco fra interni ed esterni è d’altra parte sviluppato in modo fortemente simbolico: nel film si alternano claustrofobici luoghi chiusi (la villa padronale, l’hotel di lusso in cui Kyle cerca di sedurre la sua pretty woman, il bar in cui Marylee e il fratello cercano consolazione) e spazi aperti ed edenici che diventano veri e propri rifugi e luoghi dell’anima (il fiume frequentato nei giochi dell’infanzia o le nuvole fra cui Kyle vola col suo jet privato per ritrovare se stesso).
Ai quattro personaggi principali si aggiunge poi la figura del padre, Jasper Hadley (Robert Keith), che diviene una sorta di instabile baricentro del quadrilatero: a lui sono legati i figli, in un rapporto edipico di amore e odio, ma anche Lucy e Mitch, che diventano fantasmi di figli ideali. Al pater familias Sirk dedica una delle scene più intense del film, quella in cui mentre sale le scale della villa - profondamente ferito dalla notizia di sua figlia fermata per adescamento - si sente male. Ad ogni gradino, in cui lui rallenta il passo, schiacciato dal peso del fallimento paterno, fa da controcanto il ballo sempre più veloce e sfrenato di Marylee. Chiusa nella sua camera si abbandona ad una danza sensuale e sfrenata stringendo a sé il ritratto di Mitch, in un climax che coincide col malore del padre lungo le scale, la sua caduta e la sua morte. La scomparsa di Jasper apre la parte più drammatica del film, costellata da una serie di oggetti neri e luttuosi, come la corona funebre che dal cancello d’uscita rotola verso il giardino di casa.
I colori estremamente saturi e quasi iper realistici - a corredo un impianto visivo barocco, ricco di dettagli curati nei minimi particolari - vengono spesso usati da Sirk per rimarcare scene salienti e tratti distintivi dei personaggi. Lucy indossa abiti eleganti, inizialmente dai colori chiari, freddi e poco appariscenti, come il grigio-azzurro, il beige o il bianco (con l’eccezione di un abito verde) per passare al total black nel momento del lutto e della fase processuale. Marylee guida invece una fiammante spider rossa, veste nei toni accesi del rosa e dell’arancione, e passa anche lei al nero in due sole occasioni: un attillato ed esplosivo vestito da sera e un completo con cappello a tesa larga che chiude materialmente, come un sipario, la scena del tribunale.
Nel momento in cui il flashback si riallaccia al prologo, lo spettatore rivede la scena iniziale completa di dettagli. Kyle entra completamente ubriaco nello studio di casa e trova la pistola del padre. Mentre Mitch tenta di calmarlo, Marylee prova a disarmarlo: nella colluttazione parte un colpo che ferisce a morte Kyle. Sulla vicenda si apre un’indagine con Mitch accusato di omicidio.
La scena finale ritrae Marylee - che durante il processo sublima il suo amore per Mitch scagionandolo - nello studio del padre. Dopo aver osservato dalla finestra Mitch e Lucy che partono insieme dalla villa, lei ritorna alla scrivania. Indossa un castigato tailleur grigio e stringe fra le mani il modellino di una torre petrolifera, lo stesso oggetto che - in una incombente e quasi orrifica coazione a ripetere - vediamo nel grande ritratto del padre alle sue spalle. Sirk chiude così il film con una sintesi visiva del suo concetto di melodramma: “Nella tragedia la vita finisce sempre. Morendo l’eroe è anche sollevato dai problemi dell’esistenza. Nel melodramma l’eroe sopravvive in un triste lieto fine, an unhappy happy end”.