Ben prima dell’invenzione dei fratelli Lumière, la critica d’arte ha avuto modo di interrogarsi sul rapporto tra autore e potere politico, disvelandone le asimmetrie e le conflittualità, analizzandone le influenze nell’ambito della creazione dell’opera e individuando lo status dell’artista nel contesto di una data forma statale. In coincidenza con le esperienze dei totalitarismi novecenteschi, poi, la ricerca ha avuto modo di identificare con maggiore compiutezza la dimensione della dissidenza, con notevole attenzione verso le esperienze del nazionalsocialismo tedesco e del socialismo sovietico; all’interno di tali scenari storici, si è delineata un’evidente e forse ovvia opposizione tra autori organici e autori critici o dissidenti, laddove questi ultimi vedono i propri spazi di espressione limitati o preclusi.
Se tuttavia ci si focalizzasse con questa impostazione critica verso il panorama della Cuba castrista, inquadrando la figura di Tomas Gutiérrez Alea, tali lenti non sarebbero in grado di mettere a fuoco adeguatamente l’eredità artistica e intellettuale di quello che forse è il più noto cineasta venuto da La Havana. Formatosi al Centro sperimentale di cinematografia romano e attivo per quarant’anni nel secolo scorso, Gutiérrez raggiunse l’apice del successo internazionale appena due anni prima della morte, con Fragola e cioccolato: dribblando il pluripremiato titolo del 1994, il Cinema Ritrovato 2020 ha omaggiato l’autore con due film del passato meno recente, ovvero La morte di un burocrata e L'ultima cena.
Tornato a Cuba dopo l’esperienza italiana, Gutiérrez visse per qualche anno lo status di artista dissidente, coniugando l’esperienza del neorealismo italiano con la situazione sociopolitica in cui versava lo Stato caraibico: inutile dire che il suo El Megano, documentario che gettava luce sulle condizioni dei carbonai nella palude di Cienaga de Zapata, incorse nelle maglie della censura del governo Batista. Eppure, nel giro di cinque anni dal suo ritorno cubano, l’attivista che girava reportage per il cinegiornale clandestino Cine Revista si ritrovò assieme all’amico Espimosa (con cui aveva diretto El Megano) non solo a sedersi nella stanza dei bottoni, ma a costruirne addirittura l’edificio che la ospitava: a seguito della rivoluzione, i due collaborarono alla fondazione dell’ICAIC (Istituto Cubano de Arte y Cultura Cinematograficos) e vi ricoprirono cariche nel consiglio direttivo.
Alla mutevolezza della sua parabola artistica e politica si oppone la persistenza dell’indagine sociale nei suoi lavori, dettata da uno sguardo costantemente critico e dal frequente utilizzo della satira, diretta anche nei confronti del regime rivoluzionario cubano: non a caso, si autodefinì “un uomo che pone critiche all’interno della rivoluzione, al fine di migliorarne il processo e non di distruggerla”. Sta qui il dato eccezionale di Gutiérrez, cioè la capacità di mantenere aperti gli spazi di critica e satira artistica anche nella peculiare situazione dello Stato castrista: aspetto che emerge con forza dalla visione de La morte di un burocrata, dove gli attacchi alle storture del meccanismo statale e all’apparato propagandistico vengono espressi senza metafore.
Sarebbe decisamente ingiusto limitare l’analisi del film del 1968 esclusivamente al suo contenuto politico, dal momento che La morte di un burocrata esibisce in controluce il tratto rivoluzionario presente anche nello stile di Gutiérrez, ora quanto mai distante dal neorealismo e debitore degli influssi di un certo cinema europeo a lui contemporaneo (su tutti, Buñuel e Bergman). Tuttavia, risulta sorprendente pensare a una tale libertà espressiva in un contesto totalitario: lo stupore aumenta con il successivo Memorie del sottosviluppo, in cui il disorientamento nell’orizzonte post-rivoluzionario assume tratti esistenzialisti e tragici.
Viceversa, L’ultima cena uscì in un momento in cui le possibilità di certe libertà autoriali erano precluse: al mutato clima, Gutiérrez si adeguò con una parentesi di lungometraggi storici, in cui veniva indagata la situazione precedente al 1958. Nel caso specifico dell’opera proposta al Cinema Ritrovato, il focus si concentra sulla condizione degli schiavi africani nelle piantagioni del XVIII secolo, attaccando frontalmente la religiosità ipocrita dei ceti dominanti spagnoli. E, se il mutamento contenutistico sembrasse contradditorio, basterebbe rileggere le dichiarazioni del regista, che si considerò una voce critica della rivoluzione, ma nella rivoluzione.