Nel 1968 i grandi studios di Hollywood non se la passavano troppo bene. Gli spettatori erano nelle loro case sul divano, magnetizzati dal fascino dalla televisione, mentre i loro figli erano fuori a fare chissà cosa. Alcuni film come Il laureato e Gangster Story, entrambi del 1967, erano stati in grado di incanalare quel sentore di rivolta giovanile che si respirava nell'aria ma, se nella musica e nell'arte c'era grande movimento, il cinema americano era stagnante, con la scena sperimentale a seguire vie diverse e parallele. Servivano degli outsider con un piede dentro al sistema, per dare una svolta all'interno del mainstream.

Peter Fonda e Dennis Hopper avevano lavorato assieme in un B-movie di genere exploitation, a base di sesso e violenza, di Roger Corman (Il serpente di fuoco), e Fonda era già diventato un riferimento per la controcultura grazie al suo ruolo da protagonista ne I selvaggi, sempre di Corman, dove interpretava un motociclista. Furono loro a portare sullo schermo, assieme a un manipolo di amici e conoscenti, talvolta improvvisati nei vari ruoli tecnici, Easy Rider – Libertà e paura (1969), il film simbolo della cultura giovanile hippie nonché il road movie per antonomasia.

Easy Rider racconta di Wyatt (Fonda) e Billy (Hopper), che dopo aver trasportato droga dal Messico alla California e ricevuto una ricompensa, decidono di attraversare il paese sui loro chopper, senza altro scopo che vedere il carnevale di New Orleans. Nel corso del loro viaggio finiranno in una comune, andranno in carcere per una banale contravvenzione alle regole, e in generale interagiranno con una serie di personaggi. Condivideranno un pezzo di strada e di vita con alcuni, fra i quali l'avvocato alcolista George Hanson (Jack Nicholson, che di Il serpente di fuoco era stato lo sceneggiatore), mentre da parte di altri sperimenteranno disprezzo o addirittura odio per il loro stile di vita fuori dalle consuetudini.

Pensato dal regista Hopper e dal produttore Fonda come un western, coi nomi dei due protagonisti che rimandano direttamente a Wyatt Earp e Billy The Kid,  Easy Rider conserva la capacità di mitizzazione del genere, ma sa rielaborarla con una retorica del tutto nuova: l'epica degli affreschi paesaggistici e della moto come simbolo si accompagna a una colonna sonora rock potentissima (indimenticabile Born to Be Wild degli Steppenwolf) e dialoghi sconclusionati ma emotivamente evocativi, in parte improvvisati dagli stessi attori sotto l'effetto di droghe. Affianca a un passo del racconto maestoso e per molti versi classico, anche momenti di montaggio serrati, violenti, ricchi di inusuali flash-forward, e una scena nel cimitero da cinema sperimentale.

Ciò che ne risulta è la cronaca di un viaggio in direzione opposta e speculare alla grande conquista del West, nel quale il movimento si fa afinalistico o meglio finalizzato solo all'esperienza in sé, e non esiste obiettivo se non quello di andare in un altrove. Easy Rider è un film sulla libertà come apertura alle possibilità, ma anche come senso di inappartenenza alla realtà dominante. Polarizza l'antagonismo sul “noi e loro”, suggerisce che la legge stia dalla parte dell'ordine più che della giustizia, e fa fare al personaggio di George, indeciso sulla parte dalla quale stare, la fine peggiore di tutti.

Girato come film indipendente a basso costo, una volta completato Easy Rider venne acquisito per la distribuzione da un colosso, la Columbia Pictures, che forse aveva fiutato l'affare: si rivelò un successo di pubblico enorme, arrivando a incassare oltre 150 volte il suo budget. Il pubblico giovanile non stava aspettando altro, e la pellicola divenne talmente di culto che parte della critica, oggigiorno, tende a ridimensionarne il valore artistico in sé. Resta in ogni caso un film bellissimo, capace come pochi altri di raccontare lo spirito del proprio tempo alle generazioni future, e in grado di dare il vero grande slancio alla New Hollywood degli anni '70. Ma questa è un'altra storia.