Il costruttore edile Rampazzo (Diego Ribon) e il geometra Colombo (Mirko Artuso) hanno l'idea della vita: prendere un gruppo di fatiscenti complessi alberghieri e trasformarli in residenze assistite di lusso per anziani. In fondo, i vecchi saranno il vero grande business del XXI secolo. Anzi non saranno più nemmeno vecchi, ma i “New Old”, gaudenti detentori della maggior parte delle risorse economiche del pianeta, degni di farsi simboleggiare da una medusa che rinnovando periodicamente le proprie cellule finisce per essere immortale (nota di marketing: sicuri che abbiano piacere di farsi chiamare così, a questo punto?). Rampazzo e Colombo coinvolgono quindi altri imprenditori del Nord Est, tutta gente che si è fatta da sola partendo dal nulla, e una banca importante che crede nell'enormità del loro progetto lungimirante. Quando qualcosa va storto, si scatena una valanga.

Effetto domino, presentato a Venezia 2019 nella sezione Sconfini, è sia un trattato esistenziale che un'analisi sociologica impietosa. A partire dal romanzo omonimo di Romolo Bugaro, il regista Alessandro Rossetto, non a caso anche antropologo culturale, costruisce una perfetta contrapposizione fra cosa il capitalismo avrebbe dovuto essere nelle intenzioni di Adam Smith, un sano egoismo dei singoli che riverbera effetti positivi su tutti, e come esso invece si espliciti concretamente nella contemporaneità.

Se i piccoli costruttori arricchiti dell'inizio, felici di ostentare ostriche e champagne in eteree case di design che forse non sono nemmeno di loro gusto, sono ritratti senza alcuna particolare simpatia ma con un rispetto di fondo per la loro abnegazione al lavoro, il modo in cui il loro fato si dispiega successivamente coinvolgendo la comunità nel suo complesso è suggestivo e implacabile. È il ritratto di una catena alimentare distorta in cui si sfama fino a scoppiare solo chi è in cima, mentre tutti gli altri, sia quelli ai gradini più elevati che quelli ai più bassi, lottano ormai solo per non soccombere.

Cupissimo, ineluttabile, Effetto domino è anche un inno all'attrazione/repulsione per il disfacimento e la morte. La fascinazione per i luoghi in abbandono, che ha dato vita a file crescenti di urban explorers, è qui al suo apogeo: accarezzata da una luce fredda ed esatta, la bellezza dei vecchi edifici in disuso è innegabile e struggente nelle armoniose composizioni visive generate dal caos - e da un ottimo occhio per l'inquadratura e la messa in scena. Pur con qualche dialogo filosofeggiante di troppo, il progetto di un manipolo di esseri umani di distruggerli per ricostruirli nuovi e splendenti, come se i precedenti non fossero mai esistiti, è il perfetto rispecchiamento di un anelito del nostro tempo a non invecchiare e morire mai più, di qui a una manciata di anni. 

Sarà davvero così? In un finale molto alla Sorrentino, ormai evidentemente uno standard consolidato per la rappresentazione di mondi inconsistenti, qualcosa di meraviglioso è stato costruito. È però anche gelido, del tutto impersonale e sottilmente robotico. La musica eterna (quella sì) di Vivaldi accompagna lo sguardo nell'esplorazione, e sembra un po' prendere in giro e un po' compatire tutto ciò che è impermanente, come i manufatti e le passioni umane.