Cosa può essere rimasto da dire riguardo a Federico Fellini? Un nome che ormai travalica confini geografici e categorizzazioni di genere, sinonimo di un’intimità espansa fino a diventare immaginario comune. Una personalità che ha riversato nelle proprie opere filmiche un fiume in piena di fantasie, desideri reconditi e pulsioni viscerali. Un autore che si è denudato sullo schermo attraverso la propria filmografia, raccontandosi con una “verità quasi spudorata”, come riporta egli stesso nell’esordio di Fellini fine mai.

Eppure, nonostante l’impeto dell’onirismo autobiografico che la contraddistingue, quella di Fellini resta ancora oggi una figura ammantata dal mistero; un autore dalla poetica tanto cristallina nella definizione del suo immaginario di riferimento, quanto imperscrutabile nel proprio processo di elaborazione e creazione artistica. Un contrasto che accentua il fascino del regista riminese, consentendogli di rimanere un soggetto ricco di zone d’ombra meritevoli di essere indagate. L’opera di Eugenio Cappuccio tenta di inserirsi nel coro di voci che definiscono e compongono il mosaico felliniano, sfruttando un punto di vista intimo e personale.
Cappuccio utilizza i frammenti del materiale di repertorio custodito negli archivi delle Teche Rai come segni di interpunzione per il proprio viaggio, il quale si propone di creare un esaustivo documento composto principalmente dalle parole di chi Fellini lo ha conosciuto, entrando in contatto con le varie stratificazioni della sua personalità.

Così, dalle testimonianze del confidente Vincenzo Mollica, traspare il lato più umano e addirittura paranoico di Fellini, mentre attraverso il racconto dell’esperienza di Sergio Rubini o Milo Manara si intravede il lato più pragmatico. Una dialettica tra dichiarazioni, ricostruzioni orali e immagini che ci portano dietro le quinte dei film, permettendo allo sguardo voyeuristico dello spettatore di divagare sul set di E la nave va o di indugiare sul rapporto confidenziale tra il regista ed il suo attore feticcio, Marcello Mastroianni, dietro la macchina da presa de La città delle donne, fino ad ammirare la minuziosa artigianalità che veniva riservata anche alla creazione degli spot pubblicitari.

Cappuccio incastra questi scorci secondo l’ordine cronologico che ha scandito il suo avvicinamento a Fellini, dal trasferimento a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, sino all’incontro sul set di Ginger e Fred, sul quale approdò nel ruolo di assistente alla regia. Una ricostruzione cronachistica che si pone il non facile obiettivo di affacciarsi sul paesaggio felliniano attraverso un punto di vista inusuale e leggero, il quale certamente gioisce per il tono genuino, ma che pare anche non avere la forza sufficiente per scavare in profondità, veleggiando sempre sulla confortevole superficie. Ma come dichiarato in apertura, Fellini resta un personaggio estremamente difficile da definire e restituire in maniera esaustiva, perciò la fase più forte e intrigante del lavoro di Cappuccio deriva dalla scelta di soffermarsi, nella fase finale, sui lavori incompiuti.

Indagando la travagliata gestazione dei progetti troncati e mai trasposti su schermo come Viaggio a Tulum e Mastorna, il documentario concede la possibilità di sondare l’aspetto più scaramantico e irrazionale dell’autore, ammantandolo del sopracitato e imprescindibile alone di mistero e tralasciando la volontà di voler trovare una risposta univoca agli interrogativi sollevati. Come una sagoma che si staglia su uno sfondo nebbioso e per questo intrigante, i racconti su Fellini non possono avere fine perché illimitate sono le dimensioni esplorate da quest’uomo per cui la vita necessitava di rimanere un enigma, una forza non distorta dall’artificiosa conoscenza umana, ma libera di potersi espandere secondo logiche inconcepibili dalla razionalità degli uomini. Una continua lotta “nella vita e non contro la vita”, dichiara il grande cineasta nelle battute finali del documentario di Cappuccio, il quale a sua volta non ha potuto fare altro che inchinarsi all’impossibilità di imbrigliare e rappresentare in maniera definitiva il mito di Fellini, ma a cui va dato atto di aver saputo contribuire, con il proprio sguardo umile e garbato, all’ampliamento del mito stesso.