L’arte di essere amici è lo sgraziato sottotitolo con cui Final Portrait esce nelle nostre sale. Al di là delle opinioni, è utile perché unisce le due dimensioni sulle quali si fonda questa novella autunnale e simpaticamente anacronistica. L’arte è quella dello svizzero Alberto Giacometti, scultore, pittore ed incisore che vive, lavora, mangia, beve e gode a Parigi. L’amicizia è quella che lo lega a James Lord, scrittore americano con cui trascorre pomeriggi nei caffè o a passeggio tra le tombe dei cimiteri. Chiamato a posare per un ritratto, Lord, convinto di non perdere più di un pomeriggio, si prestò alla causa per un periodo indefinito, costretto a rimandare ogni giorno la partenza per gli States e a subire stoicamente le intemperanze dell’artista.

Sullo sfondo, la capitale francese vive gli ultimi fuochi bohémien: Stanley Tucci, all’opera quinta in vent’anni (ricordiamo l’indimenticato esordio Big Night: qui ricorre il sottoutilizzato Tony Shalhoub, beffardo fratello di Giacometti), la osserva come se fosse sospesa nel suo passato mitico e le luci di Danny Cohen incidono nel grigiore di una cartolina ripensata con la nostalgia dei turisti colti. Benché all’origine ci sia il racconto autobiografico di Lord, il film sembra accogliere qualcosa che Tucci percepisce con grande empatia, che ha a che fare con il mestiere della creazione altrui, visto con gli occhi dell’osservatore ammirato e grato per esserne coinvolto. E non sorprende che questo attore, capace di finezze impareggiabili come pure di indiscutibili gigionismi, sia attratto dall’incontro di due personalità così antitetiche e legate da affettuosa stima, consapevoli di essere l’uno bisognoso dell’altro: Giacometti trova in Lord l’ennesima sfida a se stesso (nell’incipit vediamo una mostra personale, con la firma dell’artista riprodotta sul muro: da vivo è già un classico); Lord trova nell’episodio un’occasione letteraria per eternare una carriera.

A suo modo, lo stesso Tucci si accoda all’approccio dello scrittore, inserendosi nel solco di quella tendenza del biopic contemporaneo di isolare un evento specifico per raccontare un’intera vita, dal particolare al generale (Il discorso del re è formalmente un punto di riferimento). Il suo sguardo spiritoso si esprime al meglio dentro l’atelier di Giacometti, un trionfo del dettaglio che sa rendere autentiche la dedizione, la fatica, il professionismo. Dell’istrionico Geoffrey Rush – già suo partner in Tu chiamami Peter: interpretavano Stanley Kubrick e Peter Sellers – esalta la sempre suggestiva vena rinascimentale (gustoso nei duetti in italiano con Shalhoub: memorabile la battuta sulle banche svizzere). E c’è da dire che di Armie Hammer intuisce, contemporaneamente a Chiamami col tuo nome, la coscienza di incarnare il desiderio, facendo risaltare, grazie ad una recitazione che agisce in sottrazione, la centralità del suo corpo, quintessenza dell’eleganza, e del suo volto falsamente imperturbabile: e lo studiolo diventa quasi un teatro anatomico.