Il soprannaturale secondo Fellini è una commistione di sincronicità e di sincretismo mistico, come si evince in Giulietta degli spiriti. Se il primo artefatto magico per il regista riminese è il cinema stesso, un prodigio come lo era per Ingmar Bergman, “un nulla nel nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro quadratini illuminati al secondo e tra di essi il buio”, tutto quello che viene fuori dall’oscurità è fantasmagoria, metafora, allegoria suadente di luci, forme e colori, tripudio ridondante e visionario, proprio come accade in Giulietta degli spiriti, l’opera che che ci conduce in un “paese delle meraviglie” poco carrolliano e molto più debitore agli archetipi di Jung.

Nel film del 1965 nulla accade per caso (ecco la sincronicità tanto cara al sognatore “organizzato”), perché le visioni che accoglie Giulietta, moglie bistrattata con un passato doloroso alle spalle, la conducono verso la liberazione dal patriarcato e da una vita castigata, e tutto si riconverte in una modalità dell’immaginario costruito a partire dal reale verso un fantastico eruttivo e rutilante, tra sacro e profano, tra paganesimo d’accatto e cattolicesimo da operetta (spunta fuori il bizzarro coacervo sincretistico felliniano), in cui l’allucinazione – tutta incentrata sul conflitto tra amore-passione e amore-romantico - diventa rituale magico, seduzione religiosa e sedizione laica. Fellini abbatte i canoni del romanzesco puro e ci regala “un film da sfogliare più che da vedere” (Morando Morandini sull’Osservatorio politico romano) in cui la visione è oggettivizzata e procede per quadri pittorici compositi.

Anche Il settimo sigillo di Bergman potrebbe definirsi un grande collettore iconografico di un’epoca e di un sentimento (nord)europeo, ed entrambi si può dire preludano ad una “crisis” (una scelta) diversa, nonostante in Fellini la malinconia della catarsi si realizza nel suo rocambolesco avvitarsi in una serie di interferenze tra passato e presente, realtà e mondo onirico. Quello di Giulietta è un “Medioevo” colorato come un grande arazzo, estetizzante e totalmente anti-naturalistico, ma sempre di Medioevo si tratta, anche se è l’età di mezzo di un’anima (Masina), “strattonata” dal marito (Fellini), il quale si diverte anche con l’amante (Milo). Insomma, un triangolo cortese, che della cortesia non ha nulla e che funge da viatico per la liberazione psicanalitica condotta attraverso il tunnel della magia.

Nel film, magico è il colore che abbaglia e rende tutto irreale, il dualismo dei due spiriti-guida evocati in casa di Giulietta dal chiaroveggente – Iris e Olaf -, le proiezioni della “dea” che da Iris (Iride, la divinità messaggera) si tramuta in Susy e Fanny; circense è il santone indiano Bhishma che incita Giulietta a rendere il proprio corpo il teatro di battaglia dell’Amore, il burlone Olaf che chiama prostituta una delle amiche di Giulietta (contrastando o rafforzando il volere della dea Iris che desidera “Amore per tutti”). In fin dei conti Giulietta degli spiriti gioca con l’immaginario esoterico per parlare della crisi matrimoniale novecentesca e altro non è se non l’invito rivolto a Giulietta a spezzare le catene delle colpe occidentali (le convenzioni maschiliste del matrimonio, l’illusione del matriarcato, la sessualità negata) riportando a galla il rimosso che la tormenta e facendole fare i conti con i fantasmi di una vita.

Fellini usa quindi la magia in funzione terapeutica e costruisce il suo film più “fantastico” partendo sempre e comunque da una poco colorata realtà. Le parole dello studioso Louis Vax riflettono in pieno l’inclinazione narrativa felliniana: “Per imporsi, il fantastico non deve fare solo irruzione nel reale, bisogna che il reale gli tenda le braccia, consenta alla sua seduzione”.