Irlanda, aprile 1923. In un’isola situata ad un tiro di schioppo dalla “terraferma” risiede una piccola comunità. I suoi componenti conducono vite alienate, esistenze minuscole, lontane anni luce dal mondo metropolitano. In un tale contesto anche i boati provenienti dalla costa irlandese dove ancora si combatte la Guerra Civile sono un problema di secondaria importanza.

A Inisherin le sorti della nazione suscitano scarso interesse e sono invece i piccoli conflitti individuali ad acquistare dimensioni spropositate. Perciò quando una mattina Padraic (Colin Farrel) si rende conto che il suo migliore amico Colm (Brendan Gleeson) ha deciso improvvisamente di non rivolgergli più la parola, il dramma non abbraccia solamente i due personaggi coinvolti ma tocca l’intera, per quanto ristretta, popolazione dell’isola.

L’ultimo film di Martin McDonagh parte come un equivoco, un’inezia destinata a risolversi nel giro di uno stacco. Siamo ben lontani dal terribile senso di colpa che travolgeva il protagonista del meraviglioso In Bruges (2008), o dal lutto lacerante che apriva il suo ultimo lavoro, il pluripremiato Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2018).

Del suo film precedente, però, McDonagh riprende il contesto circoscritto, una realtà chiusa e fittizia (Inisherin, così come la cittadina di Ebbing, non esiste realmente) specchio di migliaia di microcontesti in cui i rapporti interpersonali tra i pochi individui presenti rappresenta la principale fonte di ricchezza. Motivo per cui, nonostante l’apparente banalità, l’esordio che coinvolge i protagonisti assume nel giro di poche e centratissime sequenze le proporzioni di un trauma insanabile.

Con la stessa inesorabilità con cui il dolore di Mildred Hayes si ripercuoteva su un’intera comunità dell’entroterra americano, lo spaesamento di Padraic si allarga agli altri per riflettersi nuovamente su lui stesso, diventa dapprima incomunicabilità per poi tramutarsi in risentimento fino a sfiorare un odio irrazionale e irreversibile. Pare quasi superfluo soffermarsi nuovamente sulle sublimi doti drammaturgiche tramite cui questo autore (teatrale, ancor prima che cinematografico) accorda e armonizza gradazioni emotive così sottili.

Con Gli spiriti dell’isola McDonagh torna a raccontare la solitudine, a portarla in scena come solo lui è in grado di fare oggi, con delle sottili quanto incisive sferzate diegetiche che partono dai particolari per dipingere un mondo di ammaliante nitidezza. Il soffocante senso di isolamento che domina il comparto emotivo viene lentamente instillato attraverso un parsimonioso utilizzo dei dialoghi, i quali molto spesso cedono qui il passo a silenzi gelidi, colmati solamente dai suoni dell’isola. Un tono minimale che idealmente riallaccia il film allo straziante Six Shooter, cortometraggio premio Oscar con cui nel 2004 McDonagh si affacciava all’audiovisivo e del quale, a diciotto anni di distanza, viene ripresa l’eco malinconica, silente e fatalista.

La Fine e il confronto con la sua irrimediabile vicinanza sembra il tema trasversale di molti film recenti (si pensi a White Noise, Riget Exodus, The Whale…) e il film di McDonagh ne è una delle più accurate declinazioni, per come riesce ad individuare il timore del singolo di fronte alla propria finitezza ed espanderlo fino a renderlo materia filmabile.

Ma nonostante il peso emotivo che si trascina, The Banshees of Inisherin riesce ad essere una commedia dai tratti esilaranti, nera come la notte, sia chiaro, ma irrorata di un umorismo scarno che contribuisce ad acuirne la portata tragica. La “disperazione” narrata attraverso i toni beckettiani dello straniamento diviene fonte di ilarità, ma senza per questo compromettere lo sguardo dolente riservato al cuore dell’opera.

Attraverso la creazione di una realtà eterea in cui la comicità si fonde ad un clima ombroso, quasi sovrannaturale, di matrice folkloristica, McDonagh trova ancora una volta la capacità concedere un’adeguata forma espressiva a stati dell’animo umano apparentemente indescrivibili. E lo fa ancora attraverso uno spropositato piacere per la ricerca di forme di racconto che superino le convenzioni per poter arrivare a noi, alla condizione paradossale dell’esistenza e alla dolce banalità delle nostre sofferenze.