Come in un sacco dell’immondizia quando si cerca qualcosa di importante che si è buttato per sbaglio, il Martin McDonagh di Gli spiriti dell’isola affonda le dita nelle viscere dell’essere umano e le rimesta a fondo senza misericordia. Ambientato sulle isole Aran al largo di Galway, il quarto lungometraggio scritto e diretto dall’autore fa dei luoghi e della comunità di uomini e bestie che li abita frattaglie da interpretare per divinazioni sul futuro un po’ di tutte le terre, quelle da cui e quelle per cui si salpa. E non è in vena di buoni auspici.

Da sotto la sottana della vecchia strega dell’isola che gironzola per i sentieri segnati di Inisherin con il bastone di Tiresia e una tunica nera forieri delle peggiori sorti, dispone come sipario invertito le mutevoli nuvole d’Irlanda, a chiudersi grigie e minacciose a inizio film e ad aprirsi di contro a nuovi raggi di sole alla fine. Fine di cosa?

Cos’è che finisce, sull’isola dove le acque cessano senz’altro di infrangersi e risalire dalle scogliere, e asimmetricamente sul lato di fronte, quello del continente a cui dall’isola si guarda e verso cui si scappa per non annegare? Forse il rapporto fra Pádraic e Colm, amici per una vita e improvvisamente in conflitto su decisione irrevocabile del secondo? O la guerra civile del ’23 che riecheggia su Inisherin e in sala, caro pubblico accomodato sui gradoni in pietra della cavea di McDonagh, sinistramente e inevitabilmente sorella di quella che esattamente cento anni dopo sta cambiando il mondo? Nessuno dei due, men che meno la seconda, tanto che chi dalla terraferma, cioè solo un’isola più grande, scrive a chi da Inisherin non si è mai mosso sembra lanciare un appello dall’oltretomba, più che dal paradiso.

E dire che tutto comincia bene, con l’arcobaleno e un sereno Pádraic che pesta la sua terra con l’abitudine e la leggerezza di cuore di chi, avvezzo a farsi poche domande e a godere di consuetudini, è amico di tutti, ma soprattutto di Colm, compagno quotidiano di pinte di birra post-prandiali e di chiacchiere sul nulla. È invece Colm che prende a interrogarsi sul senso del suo stare al mondo, sull’isola, fra gli altri, faticando a trovarlo fra crescenti umori nichilisti e ricerca di stimoli artistici da cui sentirsi arricchito, e a rifiutare all’improvviso l’amico perché bifolco e sempliciotto.

Stiamo con la sorella di Pádraic, che tiene alla differenza fra pace e noia, e fra gentile e tedioso, e ci vien voglia di ricordare a Colm anche quella fra giudicare, ciò che fa lui, e pensare, quel che si mette a fare Pádraic, costretto sì alla nuova attività intellettiva da un rito rassicurante improvvisamente negato, ma unico a indignarsi pubblicamente per la nefandezza di cui è vittima il vero scemo del villaggio, fra i tanti con cui si sfoga cercando di capire.

I suoi tormenti sulle ragioni del repentino cambiamento di scenario umano inteneriscono sulle prime, ma preoccupano al mutare dei toni, che vedono curiosità e indeterminatezza lasciare via via il campo a rabbia e pazzia crescenti, sottolineate dalle ispirate note di Carter Burwell.

Inesorabile, il conto alla rovescia scandito da dita sanguinanti e putride sta a ricordarci la crucialità dell’elemento umano nelle vicende di sempre e a interrogarci sull’impegno e l’onestà messe da noi per primi nelle relazioni quotidiane. Altro che spiriti e dei a cui offrire figli e animali in sacrificio per rabbonirli.