A Reno, cittadina del Nevada in cui tutti vanno per liberarsi di qualcosa - poco importa che siano soldi, affetti o doveri - si incontrano Roslyn (Marilyn Monroe), una giovane e avvenente donna appena divorziata dal marito, e tre cowboy che si innamorano subito di lei. La ragazza contraccambia solo l’amore di Gay (Clark Gable), il più anziano dei tre, ma instaura con Guido (Eli Wallach) e con Perce (Montgomery Clift) un rapporto di amicizia. Il legame che si viene a creare fra i quattro porterà tutti a mettere a nudo le proprie fragilità.
Nonostante siano trascorsi quasi sessamt'anni dalla sua realizzazione, e tanto sia stato detto e scritto su questo film, accostarsi oggi al magnetico e complesso Gli spostati di Huston rimane impresa difficile e affascinante al tempo stesso. Un po’ come tentare di catturare uno di quei fieri e testardi cavalli selvaggi, quei Mustang che, oltre a dare il nome al racconto di Arthur Miller da cui è tratto il film, diventano anche l’interessante correlativo oggettivo dei quattro protagonisti.
Tutto è indomito infatti ne Gli spostati, tutto è fuori posto, come d’altra parte suggerisce il titolo originale, The Misfits, che allude proprio all’incapacità di adattamento ad un contesto, che in questo caso è sia quello sociale - l’America che sta perdendo la sua innocenza e si affacciava ad una nuova epoca - che iconografico - siamo al crepuscolo del mondo dei cowboy - che relazionale - la crisi del modello famigliare tradizionale è ormai esplosa. Tutto sfugge nel film, a cominciare dai titoli di apertura la cui grafica gioca su tessere di puzzle che non riescono a comporre un disegno d’insieme, passando per i protagonisti in perenne fuga da passato, presente e futuro, per arrivare alla stella della scena finale, da inseguire nella notte, forse senza sosta, per trovare un posto, una casa, un riparo dal dolore della vita.
Nato come un atto di amore (il treatment de Gli spostati prende forma nel 1958 come regalo di Miller alla moglie Marilyn per San Valentino), il testo originale da cui viene tratto il film finisce in realtà per essere una tortura per la protagonista su cui è stato modellato. Tra il dono e l’allestimento del set passano due anni durante i quali si consuma la fine dell’amore tra il famoso drammaturgo e la popolare attrice. Eppure, nonostante le difficoltà, questo film sembra essere una scommessa che tutti vogliono vincere. Miller cerca riscatto da cinque anni di inattività letteraria. La Monroe - dopo la definitiva consacrazione come attrice comica in A qualcuno piace caldo - vuole mettere alla prova la sua attitudine drammatica anche se sta affrontando seri problemi psicologici e di salute. Huston appena legge il copione decide di dirigere il film, riconoscendo probabilmente tra le righe il potenziale altamente hustoniano della materia. Clark Gable, seriamente malato di cuore, capisce che ha per le mani uno dei ruoli della vita e accetta la parte. Montgomery Cliff, colpito dalle voci della sua presunta omosessualità e dall’incidente che gli ha procurato gravi ferite al volto, entra in quel periodo che l’amico Robert Lewis definisce “il più lungo suicidio della storia del cinema” ma acconsente ugualmente ad entrare nel cast.
Non possiamo escludere che questa urgenza di riscatto, di affermazione, di sfida e di corsa contro il tempo siano tutti fattori che abbiano contribuito a riunire sul set star del cinema, del mondo della scrittura e anche della fotografia (Elliot Erwitt per conto della Magnum scatterà la famosa foto di gruppo con attori, regista e sceneggiatore).
I riflettori puntati sul set, la presenza di star di cui il pubblico conosce benissimo la vita privata, e quindi l’inevitabile sovrapposizione di ruoli tra personaggi e interpreti, ha forse reso ancora più viva, inquieta, ambigua e tormentata questa pellicola, che a tratti rischia di essere documentario di se stessa. Rischio di cui Huston era probabilmente consapevole. Là nella solitudine del Nevada, dove la figura umana è un puntino perso nella vastità del paesaggio, il regista abbonda in primi e primissimi piani per mettere a fuoco la pena che affligge i suoi personaggi e la loro esasperata ricerca di libertà. Roslyn cerca di cancellare il ricordo del marito da cui ha divorziato ma non riesce nemmeno a gettare via la fede al dito. Gay scappa da una relazione all’altra e dai fantasmi dei propri figli, abbandonati dopo il divorzio. Guido si sente prigioniero del ricordo della moglie morta e si rifugia sul suo biplano, su cui rimane sospeso senza trovare pace. Il giovane Perce fugge dalla morte del padre, dal tradimento della madre e da un futuro da sbandato. E in questa ricerca di libertà sembra che tutti siano allo stesso tempo attratti e respinti da Roslyn, che fa sia da polo attrattore che da specchio riflettente delle loro pene.
Dolori che si materializzano in confessioni rubate al pudore, ma soprattutto in sguardi scambiati senza parole. Sguardi di comprensione, compassione, odio, rabbia, rancore, gelosia, commiserazione, impotenza, disperazione. Mai come in questo film Huston pare un direttore di sguardi obliqui prima ancora che di attori, del non detto quanto dell’esplicitato. Ogni protagonista ha però il suo momento di consapevolezza che la sceneggiatura di Miller e la regia di Huston sostengono sapientemente: la disperata corsa notturna in macchina di Guido, la confessione di amore di Perce a Roslyn, il latrato di dolore di Gay che cerca i figli, le urla di rabbia di Roslyn nel bel mezzo di un lago vuoto, lunare, quasi metafisico.
L’anelito continuo alla libertà, al trovare una dignità in sintonia con la propria natura, si affianca via via ad una crescente atmosfera mortifera: “Tutti stiamo morendo - dice Roslyn durante un indimenticabile ballo con Guido - ogni minuto ci avviciniamo alla morte”. Atmosfera che si intensifica nella seconda parte del film quando Roslyn prende coscienza che alla battuta di caccia di Mustang seguirà l’uccisione dei cavalli. Da quel momento tutti balleranno una sorta di danza macabra per esorcizzare questa presenza. Dal cane che trema perché intuisce cosa succederà, ai cavalli sfiancati dalla caccia e dalla paura, fino al duello finale fra Gay e lo stallone, che diventa alla fine uno scontro con se stesso. “È come prendere al laccio un sogno ormai, basta che trovi un altro modo di sentirmi vivo, se ce n’è rimasto uno” dice Gay nelle battute finali.
Gable morì per infarto una decina di giorni dopo il termine delle riprese, la Monroe si suicidò l’anno dopo e Clift li seguì a distanza di pochi anni. Ma a noi spettatori sembra che prima di morire quel sogno l’abbiano preso ben stretto al laccio.