Con grande coraggio Roberto Minervini ha descritto il suo ultimo film come “estenuante” di fronte a una sala gremita, composta di studenti, produttori e registi, accorsi per vedere I dannati. Estenuante, qualità canonicamente negativa che nessun regista vorrebbe sentir appiccicare alla sua opera che Minervini invece sceglie di adottare come una delle chiavi per poter apprezzare il suo film.

Descrive propriamente il cammino lento che compiamo accanto a un plotone di volontari nordisti che va in avanscoperta a Ovest, percependo ogni passo come fosse il nostro grazie all’utilizzo della macchina a mano, sostenendo i silenzi e osservando la desolazione sterminata dal paesaggio. Un’esplorazione lenta e contemplativa, che dialoga con il genere del film di guerra, del film di frontiera e con la parvenza machista del conflitto mettendo in luce la vulnerabilità, l’attesa, la reiterazione dei gesti che danno un senso di sicurezza, insieme al whisky e al tabacco, a un gruppo composito di uomini.

Con un po’ di audacia possiamo dire che ci sentiamo davvero trasportati nel mondo pre-digitale, dove era vero solo ciò che si poteva vedere e toccare e dove quindi il nemico invisibile, che spara nascosto tra frasche e crinali, è lo spettro più inquietante. Tutto questo acquista maggiore senso se capiamo come Minervini e la sua squadra hanno lavorato.

La descrive come l’esperienza di un gruppo di amici che passano del tempo insieme: per i due mesi di lavorazione tutta la troupe ha vissuto in location, scrivendo il film giorno per giorno sulla base degli spunti che emergevano dagli interpreti, chiamati ognuno a costruire in autonomia il proprio personaggio. Questo spiega i diversi linguaggi usati (chi è più silenzioso, chi si esprime per frasi fatte) e la spontaneità che traspare dai gesti, collezionati dal regista e poi sapientemente ricomposti in montaggio con esiti imprevisti.

Il laboratorio di riflessione sull’America, quello che Minervini ha portato avanti nella sua filmografia, approda al momento cruciale della Guerra di Secessione, il momento in cui il più brutale contrasto politico e ideologico divenne fondativo per la costruzione dell’identità americana, e lo fa raccontando una storia della coesistenza di singoli differenti personaggi.

Abituati al cinema di guerra ricco di spettacolari battaglie che coinvolgono centinaia di comparse, qui, al contrario, un manipolo di uomini, quasi sempre inquadrati singolarmente con una lente 24 millimetri che sfuoca e distorce i contorni e gli sfondi, vagano ognuno per sé, facendo esperienza del conflitto in solitudine, consapevoli che non ci sono altre possibilità se non andare avanti nonostante tutto.

Progressivamente questo gruppo si frammenta, i personaggi cambiano, le aspettative e le illusioni cedono, lungo un percorso ossimorico di dannazione e di ascetismo, di separazione dal mondo. Un lavoro unico che, con le parole del produttore Paolo Benzi, vuole riappropriarsi di un modo di conoscere e riscrivere la storia, grazie a un regista che non si lascia guidare solo dalle proprie intuizioni, bensì recepisce ed elabora le tensioni del mondo esterno, presente, passato e forse un po’ anche futuro.