Nell’ultima inquadratura del suo Dogman (2018), Matteo Garrone indugiava sull’espressione attonita del protagonista Marcello Fonte in un lunghissimo primo piano che ne dichiarava la resa definitiva, la rassegnazione finale di fronte all’atrocità delle proprie azioni. Lo sguardo di un non—più uomo, che sa di essere stato divorato dal proprio istinto bestiale. Io Capitano termina con il medesimo espediente grammaticale, il quale però viene investito di un significato diametralmente opposto.

L’abbandono, lo sconforto e la paura che colmavano di gelo il silenzio di Marcello vengono qui sostituiti dal grido estatico di Seydou, che conclude il nono lungometraggio del regista romano con una commossa (e commovente) fiammata di giubilo liberatorio. Un’immagine trionfale che risulta però amarissima per chi conosce quali sarebbero, oltre il quadro della finzione cinematografica, le conseguenze di quello scoppio euforico.

Ma è proprio lì che, consapevolmente, Garrone sceglie di terminare il racconto di questa sua epopea contemporanea. L’autore sceglie di congedare lo spettatore con l’unica immagine gioiosa di un film altrimenti carico di tribolazione, perché quella narrata non è solo una testimonianza della tragedia, ormai tristemente nota, del fenomeno migratorio tra Africa ed Europa, ma anche e soprattutto la storia di Seydou.

Un coming of age concentrato nel tragitto fra il Senegal e le coste della Sicilia, durante il quale il disincanto di un adolescente viene temprato dalla crudeltà degli uomini per trasformarsi rapidamente in senso di responsabilità e propensione al sacrificio. Dopo i successi ottenuti su più fronti con la sua trasposizione di Pinocchio (2018), Garrone tesse nuovamente le trame di una fiaba in cui il protagonista intraprende un viaggio del quale ignora le implicazioni, in cui un eroe ingenuo deve confrontarsi con creature mostruose che ricambiano la sua fiducia con l’inganno e puniscono la sua innocenza con il dolore.

I paesaggi aridi dell’Africa centrale non sono però le campagne rigogliose della Toscana di Collodi. I nemici incontrati da Seydou non sono solamente degli approfittatori, ma dei rozzi contrabbandieri di vite umane avidi di denaro contante oppure, nei casi peggiori, sadici aguzzini bramosi di paura e sofferenza. Rappresentare il calvario dei migranti attraverso la patina edulcorata della narrazione epica non impedisce a Garrone di permeare il suo film della dose di violenza necessaria e stimolare di conseguenza l’adeguato grado di repulsione nei confronti di quanto mostrato. Un approccio oggettivo che raggira con intelligenza il rischio di un’elaborazione tendenziosa dei fatti.

Smarcandosi dalla facile ideologia, Io Capitano rinnega una grossolana strumentalizzazione della tragedia narrata, lasciando che sia l’inesauribile potere della storia a farsi carico delle implicazioni politiche richieste dal tema. In un’attualità ormai satura di pareri e di visioni discordanti, l’originalità del punto di vista adottato da Garrone (nonché dai co-scenegguatori Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri) sta nel mostrare il pellegrinaggio dei migranti africani in modo asciutto ed essenziale, pur concedendosi delle ben calibrate divagazioni oniriche, e premendo sull’innato carisma dell’interprete principale.

Definitivo valore aggiunto di un film potente e a tratti ammaliante, Seydou Sarr (nome reale del “Seydou” diegetico) è un reduce della rotta africana, il cui viso su schermo diviene una mappa dell’itinerario emotivo attraversato. Su di esso si disegnano i sentimenti di speranza, sconcerto, paura ed infine risolutezza, che segnano le tappe del film. Un volto limpido e sereno che si trova frustato dalla polvere del deserto, bruciato dal sole rovente e tumefatto dall’accanimento dei carcerieri. Un volto che testimonia il male subìto, ma anche l’incredibile forza d’animo di un eroe classico costretto a vivere un’Odissea terribilmente attuale. Un volto che si accompagna all’urlo vittorioso (“Io, capitano!”) di chi sa di avercela fatta grazie alle proprie doti di coraggio e caparbietà.

Ed è quindi giusto che tutto si chiuda su di lui, su quel momento che, anche agli occhi di chi sa che il viaggio è ben lontano dall’essere concluso, si rivela dolente e gioioso in egual misura. Perché dopo essersi confrontato con i demoni della propria storia, la ricompensa dal valore sconfinato di questo eroe è la consapevolezza di avere mantenuto integra la propria umanità.