In un panorama contemporaneo dove la riflessione sull’autenticità dell’informazione coagula buona parte del dibattito pubblico, neppure l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, dedicato alla Rolling Thunder Revue, è potuto uscire indenne da un severo fact-checking dei suoi critici: sono bastate le prime avvisaglie di palesi incongruenze con la vulgata dylaniana a far nascere un florilegio di articoli dedicati ad elencare le fake stories della narrazione documentaria, quasi nel tentativo di restituire – di contro – una nitida occhiata del tour di “His Bobness”. La caccia alla bufala è quindi divenuta un piacevole giochino per ogni appassionato, rischiando tuttavia di lasciare inevase le domande sul motivo di una scelta di questo tipo: domande non ancora poste all’autore newyorkese, il quale – dal canto suo – si è limitato ad una sibillina video-intervista pubblicata da Netflix in occasione dell’uscita del film.

Va da sé come la ricostruzione della pura storia della Rolling Thunder Revue sia materia da filologi: seppur le immagini documentino le scene di stupore folgorante degli spettatori, si deve comunque ricordare che la tournée del tuono rotolante – al di fuori dei suoi fortunati astanti – trovò l’attenzione del pubblico di massa solo a partire dalla pubblicazione dell’album live nella Bootleg series, nel più vicino 2002. Prima di ciò, la narrazione del tour corale tra cerone e cappelli fioriti non aveva goduto di particolare fortuna: all’insuccesso del film Renaldo and Clara (girato e montato dallo stesso Dylan, nel ’78) si accompagnò la diffusione di un album come Hard Rain, che documentava la seconda parte del tour, virata su ambienti aperti e suoni decisamente più elettrici, di fatto antitetica alla prima tranche autunnale. Per intenderci, il prodotto di Scorsese parla unicamente della prima parte della tournée, scindendo a metà la narrazione.

E dunque, anche a causa dell’insuccesso di Renaldo and Clara e del mutismo del suo autore, la ricostruzione sugli eventi del 1975 si trova spesso coperta da coni d’ombra, sui quali è possibile solo congetturare e su cui Scorsese ha avuto buon gioco nel cambiare alcune carte. Il legame con il mai citato film del ’78 è evidente, al punto che il finto regista Van Horp fa da contraltare ad un Dylan quanto mai reticente, introducendo le riprese live curate dal cantautore americano, con la complicità di Sam Shepard (presente nella realtà e nel film). Se l’introduzione di un produttore fittizio, interpretato dall’attuale CEO della Paramount Pictures, può voler solamente strizzare l’occhio all’irripetibilità di un evento economicamente fallimentare, l’inserimento anacronistico di personaggi più noti al grande pubblico (da Sharon Stone ai KISS) colloca la carriera dell’artista nel Pantheon del pop a stelle e strisce o ne problematizza la costruzione del mito?

Ancora, la sovrapposizione della storia musicale con quella politica americana suscita riflessioni sull’attualità statunitense e sulle sue mitopoiesi, evidenziando come ogni storia nazionale – destinata per sua definizione a contenere elementi fittizi o semplificati – comporti delle appropriazioni indebite verso i prodotti culturali di differenti epoche. Dylan, che ha passato un lungo periodo della sua vita a lavare da sé l’immagine del cantore del ’68, può esserne ben conscio. E allora poco importa che il senatore Jack Tanner sia solo un omaggio all’omonimo personaggio di Tanner ‘88, se l’ex presidente Carter utilizzò effettivamente le frasi del cantautore nei suoi comizi, adattandone i concetti ad ovvi fini elettorali.

Insofferente alle appropriazioni e alle categorizzazioni, lo stesso cantante ha passato la propria vita lasciando dietro di sé informazioni fuorvianti e dichiarazioni contraddittorie, facendo fuoriuscire la moltitudine di personaggi pubblici raccolti nel I’m Not There di Haynes. Ha coniato per sé stesso almeno tre pseudonimi, vivendo sovente in un isolamento impermeabile ed alimentando allo stesso tempo leggende metropolitane sulla propria vita privata: al punto che anche episodi fondamentali della sua biografia – come l’incidente in moto che troncò il tour di Like a Rolling Stone e lo tenne lontano dalle scene fino al ‘74 – vengono messi in dubbio dai più. Tratti ben noti a Scorsese, che l’ha raccontato prima tangenzialmente, con The Last Waltz, poi – con una cura filologicamente commovente – nel documentario-fiume No Direction Home; salvo, in quest’ultimo omaggio, tuffarsi nel mito e contribuire egli stesso al suo ampliamento. Ampliando l’orizzonte della prospettiva, la biografia dell’artista rimane in secondo piano rispetto agli oggetti della sua arte: è a quella, ovvero alle abbondanti riprese dei live, che Scorsese riserva una parte consistente di minutaggio, regalando agli appassionati del cantautore del Minnesota anche la dimensione visiva, prima mancante di un evento unico. Ed omaggiandoli con un nuovo gioco per l’estate, in allegato.