Nella sezione Venezia Classici tra i tanti titoli illustri del cinema mondiale spicca questo piccolo capolavoro cubano, restaurato dalla Cinemateca de Cuba in collaborazione con l’archivio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Il film arriva a Venezia a 60 anni dalla fondazione dell’Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematográfica e a 50 anni dalla proiezione del primo film cubano a Venezia: La primera carga al machete di Manuel Octavio Gómez.

La vicenda prende le mosse dalla morte dello Zio Paco, grande lavoratore il quale finisce vittima del suo mestiere cadendo dentro il marchingegno, da lui stesso inventato, che produce in serie busti dell’eroe della rivoluzione José Martì. I suoi compagni, per rendergli omaggio, decideranno di seppellirlo con la tessera sindacale che però diventerà necessaria alla vedova per riscuotere la pensione. Questo porterà a un’esumazione clandestina impedendone l’interramento successivo, bloccato dalle intricate maglie della burocrazia, sfociando in un assurdo gioco di rimandi tra un ufficio e l’altro e generando violenza.

Il film di Tomás Gutiérrez Alea è zeppo di trovate originali e divertenti, come i titoli di testa che sono creati come fossero un documento ufficiale e alla fine ringraziano alcuni tra i più grandi registi di tutto il mondo, ad anticipare la forte cinefilia e il citazionismo che vedremo nel corso della pellicola. Infatti molti sono i rimandi espliciti, soprattutto alla slapstick comedy, a Tempi Moderni di Charlie Chaplin, a Laurel and Hardy e Buster Keaton, ma anche a un maestro come Luis Buñuel (e forse anche un po’ a Bergman) nelle sequenze oniriche in cui il protagonista Juanchin, nipote di Paco, comincia a perdere la testa e delirare in seguito alla frustrazione portata dal susseguirsi dei fallimenti e dei rimbalzi contro il muro di gomma della burocrazia. Juanchin è un personaggio tragicomico, una persona tranquilla, rispettosa e gentile che viene portata all’esasperazione e diventa violenta nel peggiore dei modi. Tale trasformazione è quasi impercettibile e questo si deve al talento dell’interprete, Salvador Wood, purtroppo scomparso lo scorso 1 giugno.

La muerte de un burocrata è uno dei gioielli del cinema cubano, un film in cui si ride molto, ma lo si fa in maniera intelligente e con un tocco di amarezza. La forte critica satirica alla società cubana post rivoluzionaria proviene da esperienze personali dell’autore: “Ho deciso di realizzare il film per esperienza personale. Può succedere a chiunque. Sono stato improvvisamente catturato nei labirinti della burocrazia da alcuni problemi molto semplici ed elementari che volevo risolvere. Ho perso molto tempo e ho deciso di rendere giustizia con le mie mani…”. Così come l’ironia verso l’arte al servizio della rivoluzione può essere letta come critica a quei compagni dell’Instituto Cubano del Arte y la Industria Cinematográfica con i quali il regista era in aperta polemica perché, secondo lui, colpevoli di aver perso di vista un certo tipo di valori cinematografici per dedicarsi a un cinema schematico e fondamentalmente propagandistico.

Un’opera che ha il grandissimo pregio di essere dinamica, scorrevole e leggera, ma allo stesso tempo piena di riferimenti e costruzioni storiche, politiche e sociali, il tutto incastrato magistralmente per mettere in moto una macchina filmica perfetta.