L’adolescenza, e i suoi turbamenti sono, oltre che una realtà della vita, uno dei luoghi cinematografici più usati, e abusati. Il motivo è fin troppo evidente: cosa ci può essere di più universale e condiviso del ricordo di quegli anni difficili in cui si viaggia sperduti alla scoperta di se stessi, costruendo la propria identità d’adulto grazie (e nonostante) le tante prove che si incontrano lungo il cammino? Zen sul ghiaccio sottile, presentato prima a Venezia e passato ora ad Alice nella città durante la Festa del Cinema di Roma (è anche tra i film in programma al festival Gender Bender di Bologna), mette in scena un coming of age che affronta, senza incappare in stereotipi, il delicato tema della disfunzione di genere.

Maia Zenasi, detta Zen, è un’irrequieta sedicenne che vive con la madre in un paesino tra le montagne.  Fuori dal campo da hockey, dove è la migliore, Zen viene vessata dagli altri ragazzi della squadra (lei è l’unica femmina) per i suoi modi da maschiaccio. L’inaspettata amicizia con Vanessa indurrà la protagonista a rompere quel muro di silenzio che si è creata intorno, aiutandola a prendere coscienza e a rivendicare la propria “diversità”.

La regista Margherita Ferri trova per il suo film d’esordio un tono peculiare, difficile da riscontare nel cinema italiano. Ambientando la vicenda tra le nevi dell’Appennino emiliano, e mettendo in scena uno sport insolito - almeno per la nostra penisola - come l’hockey su ghiaccio, riesce a dare respiro e universalità alla storia. I modelli della giovane regista, che il film l’ha anche scritto, sembrerebbero quelli del cinema indipendente americano: la storia di Zen potrebbe tranquillamente essere ambientata nel Wyoming o in Canada, e presenta non pochi punti di contatto con gli altri film presentati a Roma, da Boy Erased a La diseducazione di Cameron Post, che cercano di raccontare la sofferta scoperta, e l’altrettanto difficile difesa, della propria identità sessuale. Un percorso reso doloroso e difficile dalla stupidità e dalla violenza degli altri, dagli sguardi giudicanti e ostili del mondo circostante.

Qualche dialogo didascalico e certi cambi troppo programmatici di rotta nell’evoluzione dei personaggi non sminuiscono l’urgenza e la necessità dell’autrice di raccontare questa storia. Ne è prova la vicinanza complice ma non indulgente che dimostra verso la sua protagonista, a cui dà forza la bella prova della giovanissima Eleonora Conti, capace con il corpo e con gli sguardi di raccontare la diffidenza, la confusione, la rabbia di chi è costretto a nascondere una parte di sé agli occhi del mondo. Il finale del film non è consolatorio ma lascia comunque spazio alla speranza, sottilissima e sempre sul punto di rompersi come il ghiaccio sottile.