C'è qualcosa che distingue nettamente la quadrilogia di Alien da tutti gli altri casi - anche i più nobili - di serialità cinematografica. Un insieme di connotati che contribuiscono a farne un oggetto unico e inavvicinabile, figlio del suo tempo eppure sempre a qualche gradazione di distanza da tutto il resto. Rispetto al più ludico contraltare Star Wars, essa rappresenta forse il primo esempio di fantascienza spaziale post-'68 a raccogliere la sfida del monolite kubrickiano 2001; quella cioè a proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e capacità di riflettere in modo viscerale e adulto su temi filosofici, sociologici e nuove tecnologie.
A ciò si somma l'elemento body horror, la riflessione tipicamente ottantina sul corpo con le sue mutazioni e profanazioni. Di norma rinvenibile nelle filmografie di grandi irregolari come Cronenberg, Verhoeven o Carpenter, Alien e seguiti la portano nella dimensione di una saga ad alto potenziale commerciale, divulgandone i temi al grande pubblico senza per questo diluirne la portata riflessiva.
Ancora, quella di Alien è la prima grande saga sci-fi a reggersi interamente sulle spalle di una protagonista femminile, la Ellen Ripley di Sigourney Weaver (Sarah Connor conta solo in parte, non comparendo in tutti i Terminator e non essendo la vera protagonista di Judgement Day). Brillante intuizione del produttore Walter Hill, la presenza della donna Ripley scombina le carte rispetto ai consueti universi del fantahorror, contrapponendo il Femminile a un antagonista - lo xenomorfo - la cui biologia e design si caricano di oscuri elementi sessuali, chiamando continuamente in causa lo stupro, la gestazione, il parto e la maternità.
La saga si pone quindi come terreno d'elezione per riflessioni di ambito gender, forte di un personaggio e di una struttura narrativa malleabili che consentono di proporre sempre nuove variazioni sul tema: Alien contrapponendo la donna a un mostro fallico e stupratore; Aliens scoprendone il lato materno e suggerendo l'identificazione fra lei e la regina-madre aliena; Alien3 esasperando le qualità metafisiche del primo capitolo, con una Ripley-martire che richiama nell'iconografia la Giovanna d'Arco bressoniana; Alien - La clonazione, infine, immergendo l'intero racconto in atmosfere più volte definite "amniotiche" o "placentali".
Proprio in questo mix di coerenza artistica e varietà tematica si nasconde l'altro grande elemento di originalità della quadrilogia, in particolare rispetto alle coeve saghe horror-slasher cui è talvolta accostata (i vari Halloween, Venerdì 13, Nightmare), con cui in effetti condivide elementi narrativi come gli omicidi in serie o il protagonismo femminile in stile final girl. Rispetto ad altre importanti realtà dell'horror, i film di Alien non vanno però soggetti a quel meccanismo di sfruttamento in serie, tipico del genere, per cui a un primo capitolo di successo fanno seguito film di riciclo, spesso dal budget minore e dallo scarso pedigree artistico.
Al contrario, negli anni la serie ha mantenuto un deciso orientamento d'autore, affidando sempre le regie a nomi in grado di mantenerne alto il livello qualitativo. Ma Alien si distingue nettamente anche da altri esempi di saghe d'autore (Il padrino, Matrix, lo stesso Star Wars ecc.) per essere piuttosto una saga "di autori", figlia cioè degli apporti di artisti dalle personalità disparate, e a cui viene lasciato ampio margine per esprimere il proprio stile. Aggiungiamoci che si è quasi sempre trattato di registi esordienti - Fincher - o a inizio carriera - Scott e Cameron - e viene fin troppo facile sfruttare l'immaginario cupamente fecondativo della serie per definirla grande incubatrice, nursery di talenti del cinema contemporaneo.
Se all'uscita il terzo e il quarto capitolo ricevettero la loro dose di critiche, il tempo e la prospettiva storica li hanno accorpati ai primi due nel segno di un'evidente unità stilistica e d'intenti. In parte per la presenza trasversale di Weaver, in parte per lo straordinario lavoro di effettisti e scenografi (da Rambaldi in giù) che hanno continuato a elaborare ed espandere gli straordinari concept di H.R. Giger, la quadrilogia si presenta oggi come un blocco compatto, difficilissimo da approcciare o riprendere in chiave reboot.
Non a caso buona parte dell'agguerrito fandom mal digerisce non dico gli Alien vs Predator (2004 e 2007) - che pure a posteriori hanno fatto scuola per le sorti del blockbuster contemporaneo - ma anche il riavvio di saga operato da Ridley Scott con Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017). Troppo diverse le atmosfere, troppo pesante l'assenza di Ripley, troppo inconciliabile l'estetica digitale di quei film con il mondo di secrezioni e membrane plasmiche della saga che ci aveva fatto sognare il biomeccanico. Ma soprattutto troppo arrogante questo autore-demiurgo, con la sua pretesa di accampare diritti esclusivi su un mondo che di demiurghi aveva sempre fatto a meno.
Infine, due parole più nello specifico sui due film iniziali. Anche i più strenui difensori dei sequel di Fincher e Jeunet infatti non possono fingere che la leggenda di questa saga non si debba ai primi due capitoli, Alien (1979) e Aliens (1986). Diversi come il giorno e la notte, eppure così armoniosamente legati e comunicanti. Simili nell'essere le opere seconde (tutti d'accordo a non considerare Piranha Paura?) di due dei registi più influenti di sempre sull'immaginario fantascientifico, come uno di loro ci ha ricordato per l'ennesima volta pochi mesi fa.
Alien: forse l'unico altro film di fantascienza ad aver lambito la sospensione ultraterrena di 2001, sporcandone però le atmosfere asettiche in un incubo post-post-industriale fatto di ruggine e cargo interstellari, dividendi non pagati e oscure multinazionali che mandano al macello il proletariato del futuro, lampi shakespeariani (Ian Holm!) e visioni lovecraftiane, con un senso dell'immagine mai visto prima nè dopo.
Aliens: un vero e proprio assalto sensoriale, che fra echi di Peckinpah, Vietnam movie e Gordon Douglas moltiplica e accelera la tensione dell'originale traghettandola nell'action muscolare di cui è maestro il regista canadese. Una capsula temporale delle ossessioni di un'epoca, ma soprattutto il manuale definitivo su come fare un sequel: prendi un grande horror esistenziale, buttalo su un'autostrada a rotta di collo, e non scordarti di aggiungere il melodramma. Operazione riuscita così bene, se la memoria non inganna, solo a un altro film. Ovviamente di James Cameron.