Le Notti magiche che danno il titolo al nuovo film di Paolo Virzì, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, sono quelle dei mondiali del ‘90. Alle vittorie e alle sconfitte tramette dai televisori di bar e salotti si intrecciano le rocambolesche vicende dei tre finalisti del premio Solinas (un toscano guascone e donnaiolo, un siciliano cinefilo e un’insicura ragazza della Roma bene), costretti a confrontare le loro aspettative con la spietata realtà del mondo del cinema.
Virzì, con il supporto alla scrittura di Francesco Piccolo e Francesca Archibugi, realizza un progetto che aveva in mente da tempo: raccontare quel momento della storia del cinema di casa nostra a cavallo tra il vecchio e il nuovo, fotografando la fine dell’universo dorato dei grandi produttori, dei grandi registi, ma soprattutto dei grandi sceneggiatori. Un branco di leoni “vecchi, stanchi e che non c’hanno voglia di fare un cazzo”, pronti a catturare e spremere fino al midollo i loro giovani “negri”. Tra tante apparizioni e camei, Herlitzka fa l’intellettuale neorealista, Bonacelli il verso a De Concini, Andrea Roncato (il più misurato nel tratteggiare il suo personaggio) un regista contestatore sprofondato nell’indigenza. Peccato che siano tutti siparietti che non riescono ad acquistare quasi mai un vero spessore, una sfilata di figurine bozzettistiche che non graffiano, non criticano, non condannano ma nemmeno assolvono.
Manca la nostalgia, anche dolorosa, che dava forza al modello dichiarato C’eravamo tanto amati, omaggiato nel personaggio del siciliano Scordia (copia carbone, non a caso un po’ anacronistica, di quello di Stefano Satta Flores) ma anche nella messa in scena di una Roma piena di osterie, dove ci si aspetta sempre di sentire ordinare solo “mezzo picchiapò”. Anche qui una delle notti magiche è quella in cui vediamo Fellini sul set, stavolta per l’ultimo ciak di La voce della luna. Ma ormai è solo una controfigura che gli somiglia, non l’originale (accade anche con Mastroianni in un’altra scena), e tutto nel film di Virzì sembra mancare di vera autenticità: sono lontane le riflessioni politiche e sociali del film di Scola, perse e stemperate in dialoghi e situazioni che a volte sfiorano un’ingiustificata volgarità, contagiate a sprazzi da echi sorrentiniani alla Grande bellezza.
Certi cambi di scena repentini e brutali fanno pensare che si sia tagliato molto in sede di montaggio, facendo uno sforzo per cercare di contenere, senza perdere la coerenza della storia, una miriade di argomenti, personaggi, linee ed espedienti narrativi. Troppa carne al fuoco, che finisce per ingolfare il film, creando una fotografia di gruppo confusa e un po’ sbiadita in cui è difficile riconoscere qualcuno, non solo nelle figure sullo sfondo ma anche tra quelle in primo piano. Ne pagano le conseguenze soprattutto i giovani attori protagonisti, non aiutati da tre personaggi stereotipati e fuori fuoco che parlano come libri stampati e mai come persone.
Tutto questo è racchiuso in una debole cornice poliziesca – che si trasforma alla fine, in maniera del tutto programmatica, in una riflessione meta-cinematografica sul racconto – a cui si aggiunge anche un sotto finale ambientato ai giorni nostri, fatto a mo’ di documentario, per cercare di chiudere le storie lasciate in sospeso. Decisamente troppo per un solo film, dove anche il motivo dei mondiali finisce per essere più una buona idea sprecata che qualcosa di più. Forse Notti magiche doveva essere una serie Rai in quattro puntate, come quella promessa a uno dei malcapitati finalisti dal produttore fallito e megalomane Giancarlo Giannini. O forse sarebbe stato meglio per Virzì ascoltare l’ultimo consiglio dello sceneggiatore interpretato da Herlitzka: “Accorcia il finale. Anzi toglilo proprio. I finali non servono a un cazzo”.