Prima ancora che un gesto politico, come è stato letto immediatamente allo scorso Festival di Venezia, L’immensità di Emanuele Crialese è un atto di lealtà del suo autore. Verso la sua identità di uomo transgender, ma anche verso il pubblico oltre lo schermo, a cui si confida a quasi sessant’anni d’età – venticinque dall’uscita del suo primo lungometraggio – sulla propria infanzia e sul suo percorso di transizione.

L’immensità, in effetti, non è un film propriamente militante, e la sessualità del protagonista Andrea, alter ego di Crialese, fa parte di un discorso più “casalingo” di quanto si sia pensato. Al centro di questo racconto autobiografico vi è il rapporto fra Andrea e sua madre Clara, che difende la libertà del figlio a costo di essere bollata assieme a lui come “diversa”. La storia di un corpo estraneo, alieno per auto-definizione, e del suo legame con un altro corpo, emarginato dal mondo di cui fa parte.

La loro relazione forma il nucleo anticonformista di una famiglia altrimenti normale, ed è alla base di un conflitto non dissimile da quelli che l’autore ha già raccontato in Respiro e Terraferma. L’ultimo lavoro di Crialese, oltre a informarci sulla realtà del regista, getta quindi una nuova luce sulla sua filmografia – prima di tutto su Respiro, con cui L’immensità ha più di un punto di contatto.

Come nel film del 2002, si parla anche qui di una maternità incompresa, specchio di un modo di vivere libero e immaginifico dove si ascrive il racconto di crescita di Andrea-Emanuele. L’ambiente in cui la storia si svolge, però, è assai diverso: la Grazia (Valeria Golino) di Respiro abitava una dimensione naturale più viva (Lampedusa), che intrecciava con la fisicità della donna un rapporto di fertile opposizione. L’immensità, invece, si svolge sullo sfondo di una Roma che non diviene mai prominente all’interno della storia, e che si disperde in una visione ambientale ripulita e precisina, poco espansa e dunque meno cruciale di quella del film precedente.

È un dettaglio non da poco, perché influenza direttamente la scrittura del personaggio di Clara: il suo conflitto principale, d’altronde, è proprio legato alle pratiche e alla mentalità della società di quegli anni, con cui lo spirito ribelle della donna risulta inconciliabile. Ma al film manca la voglia di esplorare veramente questo contrasto, e il dilemma di Clara si scioglie nella ricostruzione manieristica e inerte dell’ambiente, fino a smorzarsi quasi del tutto e ad appiattire la sua conflittualità.

Se quella di Valeria Golino era una presenza partecipe, concretizzata nella natura isolana del film, la madre di Penelope Cruz è invece un’immagine volatile che non si stabilizza mai come personaggio vero e proprio. Clara rimane così uno schizzo, uno scarabocchio che non prende forma – troppo esile perché possa ancorare il cuore emozionale della storia. E l’attrice spagnola, pur prestando al film la sua meravigliosa presenza materna, sembra incerta e sacrificata nei panni di una figura di forte impatto emozionale a cui manca però autenticità cinematografica.

Assieme a lei si smorza anche la visione di Crialese, e i limiti de L’immensità diventano allora più evidenti: la tendenza estetizzante del regista; la scrittura superficiale dei personaggi di contorno; la performance dell’inesperta Luana Giuliani, campionessa di moto prestata al mondo del cinema, che non riesce a infondere empatia nella figura di Andrea.

Resta l’indubbio valore narrativo di un’opera in cui il suo autore si mette a nudo come mai aveva fatto finora: il gesto coraggioso di Crialese ammanta il film di un candore che lo rende a suo modo unico, ed è giusto per questo celebrare la grande sincerità del regista. C’è molta verità nel film, ma Crialese non trova il modo per metterla in scena in modo genuinamente coinvolgente. L’immensità è quindi uno squarcio prezioso ma incapace di bucare lo schermo: un album di fotografie che non riesce a superare la barriera del ricordo, e che resta sigillato nella memoria del suo autore.