Emanuele Crialese aveva stregato con il suo Nuovomondo, che con stile fresco, libero, incisivo aveva raccontato l’epopea dell’emigrazione italiana in America. Pochi anni dopo il tono era cambiato con Terraferma, di tono più modesto e aderente al reale per raccontare invece l’immigrazione dal Nord Africa a Lampedusa. Dopo undici anni Crialese torna con un film ancora diverso, un frammento di autobiografia dove purtroppo non emerge uno stile personale, ma piuttosto sembra aderire a un fare cinema convenzionale e già utilizzato in tanti, troppi film italiani.

L’immensità racconta un breve periodo della vita di Adri, un ragazzino preadolescente che vive nel corpo di una ragazza in cui non si riconosce. La sua identità ancora in formazione si scontra con il mondo dei valori precostituito dai genitori e quello della libertà assoluta e svagata dei bambini, e le sue vicende quotidiane sono raccontate secondo una narrazione semplice e prevedibile. La figura di riferimento per Adri è sua madre, interpretata da Penelope Cruz, che sopravvive alla vita casalinga infondendo creatività e leggerezza nelle piccole azioni quotidiane, trasformando tutto in un gioco a cui può partecipare con i figli. Una strategia che purtroppo non riesce a tenere fuori dalla porta la sofferenza per una relazione tossica.

A sostenere questo racconto lineare anche la scelta delle immagini è banale: per quanto poetiche, le immagini di grembiuli lanciati fuori dalle finestre, di pezzi di bambola fluttuanti in una piscinetta gonfiabile o ancora le scenette che riprendono gli spettacoli di varietà degli anni ‘70 non sono affatto originali né riescono a produrre quel coinvolgimento emotivo per cui sono state ideate. Il risultato è un film di buoni sentimenti, che si gode ma poi si dimentica, forse anche all’ombra di opere autobiografiche italiane più celebri che ancora persistono nell’immaginario e nella discussione cinematografica (come È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino).

È difficile scrivere questa critica sapendo che questo film è anche un gesto di coming out del regista, e, pur comprendendo che dietro ci deve essere stato un lavoro impegnativo e personale, giudicarlo comunque scialbo. La sensazione è che il tema della transizione di genere sia talmente poco affrontato nella nostra società da rendere difficoltosa anche l’espressione di una storia così in maniera libera e svincolata da preconcetti, persino da chi ha vissuto questo percorso. Forse per il desiderio di mediare con un linguaggio che possa raggiungere tutti? Per non scoprirsi troppo e rendersi vulnerabile nella narrazione del proprio vissuto?

Domande che probabilmente non si porrà chi andrà in sala a vedere questo film, che più probabilmente apprezzerà questa storia proprio in virtù della sua natura autobiografica e sarà felice di tornare in sala per vedere il nuovo film di un regista importante quale Emanuele Crialese.