Nato come “piccolo film” in attesa dell’adattamento della Recherche e vittima di una prima distribuzione che lo tagliò pesantemente per ragioni commerciali e di censura, Ludwig (1973) ha avuto una seconda vita grazie alla cordata costituita dai collaboratori storici di Visconti (dagli sceneggiatori Checchi d’Amico e Medioli al costumista Tosi, solo per citare alcuni nomi) che, nel 1978, riuscirono a riacquistare i diritti di produzione del film e a rimontarlo come nelle intenzioni del regista. Deceduto due anni prima, Visconti non vide mai il film come lo aveva immaginato e considerava, con disprezzo, la versione accorciata “un carosello”.

Raccontata con passione e commozione da Silvia e Caterina d’Amico in occasione del Cinema Ritrovato, la vicenda della doppia vita produttiva e distributiva del film focalizza la nostra attenzione sul rifiuto del film di giungere a una conclusione, un momento fondamentale nel genere biografico in cui si inscrive. Un rifiuto che non riguarda solo le vicende portate sullo schermo della vita di Ludovico II di Baviera ma che si sposta anche al di fuori dello spazio diegetico, invadendo quello della vita fuori dallo schermo.

Come Ludwig personaggio rifiuta di essere deposto e vuole decidere per la sua vita, Ludwig il film afferma la sua vitalità artistica. Lo scambio tra vita e film non si conclude qui. Nella suggestiva lettura avanzata dalle sorelle d’Amico, il biopic non è semplicemente su Ludwig ma su Visconti stesso: nella sua identificazione con Ludwig, nobile omosessuale con interessi artistici, ma anche nella sua condivisione di alcuni tratti degli altri personaggi (la magniloquenza dei progetti di Wagner per esempio) e nell’utilizzo di attori e attrici come Berger, Schneider, Orsini, Mangano, Griem e Asti appartenenti alla sua cerchia.

La morte del biografato è un momento fondamentale e un tipico punto di arrivo del genere: certamente Ludwig termina con il decesso del monarca, ma il film rifiuta di dare certezze, con un’ellissi nella rappresentazione dell’evento conclusivo che non avanza nessuna ipotesi sulle cause materiali. Inoltre, facendo dell’aporia l’elemento narrativo caratterizzante, il film racconta Ludwig come se fosse vivo, al tempo presente, con una cornice narrativa di testimoni che, su sfondo nero quasi in un monologo teatrale (altra dimensione artistica che ha sempre interessato Visconti), rievocano e attualizzano i suoi comportamenti e le sue eccentricità. In questo modo, inoltre, la vita privata si salda in modo indissolubile alla sfera della storia e della politica, decostruendo il binarismo pubblico/privato.

Visconti gioca quindi con le convenzioni del genere: gira nei luoghi di Ludwig consegnandoci un’accuratezza storica e una precisione nei dettagli quasi maniacale, al tempo stesso richiama l’attenzione sulla stessa finzione cinematografica affidando a Romy Schneider il ruolo di Elisabetta d’Austria, affrancandola da quello stesso personaggio così diverso impersonato quasi venti anni prima. Proprio all’attrice è affidata una battuta che rivela il profondo scetticismo su quella che invece viene considerata generalmente la caratteristica – e anche un po’ “di maniera” – attenzione di Visconti per la "ricostruzione storica”. “Siamo senza storia,” afferma l’imperatrice, “serviamo solo da parata”. La possibile immortalità si raggiunge solo attraverso un assassinio.

Per questo suo continuo richiamare la finzione artistica e per le sue innovazioni al genere che accolgono le ansie tipiche del nostro tempo rispetto alla conoscibilità della Storia, citando le parole del monarca verso la conclusione del film, a cinquant’anni dalla sua lavorazione, Ludwig rimane un enigma che confonde e affascina.