"Therein the patient

Must minister to himself"

Macbeth, 5.3 47-8

Opera filologica e surrealista l’adattamento di Polanski fu accolto con giudizi negativi dalla critica, ma propone una lettura originale e cinefila del Macbeth. Certo, vedere Polanski non è leggere Shakespeare, ma perché dovrebbe esserlo?

Torniamo al 1972: l’uscita del film è carica di attesa, gonfiata dall’ingombrante produzione di Playboy e dal massacro in cui Sharon Tate ha perso la vita a pochi mesi dal parto. Dopo il delitto, Polanski è caduto in depressione. Macbeth segna il suo ritorno alla regia: non è un caso che nel film la visione del sangue e dei morti sia insistita. Diverso discorso per i (corpi) vivi: il nudo di Lady Macbeth, voluto da Hefner, creò scalpore, ma appare un gesto mediatico, faticosamente giustificato e figlio di un mondo maschilista. Anche se i protagonisti (Francesca Annis e Jon Finch) sono volutamente giovani e sensuali, il film vive di nudi più potenti: uno insistito e grottesco nel sabba delle streghe; l’altro fugace ma illuminante nel primo incontro fra Macbeth e le Weird Sisters.

È un attimo: una delle streghe solleva la gonna e scompare in una porta nella campagna scozzese. Il gesto ha un nome, anasyrma, e una storia: affonda le sue radici nella mitologia greca, trascende mito, rito e passa da Il diavolo di Papefiguière di Jean de La Fontaine per approdare nella Scozia medievale ricostruita da Polanski, dove i nobili combattono come burattini schiacciati dalle armature e sguazzano nel fango. La perizia storica si deve al co-sceneggiatore Kenneth Tynan critico teatrale, autore, pochi anni prima, del musical erotico Oh! Calcutta! (gioco di parole per Oh, quel cul t’as!). Polanski trovò terreno fertile nelle ossessioni di Tynan e viceversa, anche se nel Macbeth gli istinti dei protagonisti sono più profondi del sesso.

Il contrasto tra realismo e surrealismo crea un colore potente come la luce che deforma il paesaggio nella prima inquadratura. Filologia e ossessione si esaltano nell’opera di Polanski e Tynan, dove l’intuizione realistica brilla sui corpi dei protagonisti incidendo negli occhi le ombre della psiche. Ecco, quindi, l’anasyrma e la porta. Le streghe sono esseri umani, non incarnano, come negli adattamenti di Welles e Kurosawa, potenze soprannaturali o il Fato, ma adottano gesti rituali e fuggono da una porta.

La scambio fra Banquo (“dove sono svanite?”) e Macbeth (“nell’aria”) diventa ironico solo in Polanski e in nessun’altra resa cinematografica del Macbeth, nemmeno nell’ultima di Joel Coen. Non è un caso: la resa freudiana di Polanski non è una lotta fra bene e male, ma si consuma dentro la psiche del suo protagonista che deforma la realtà. Sul realismo si stagliano i contorni della follia, in crescendo, di Macbeth: l’effetto speciale del “pugnale della mente”, lampi di luci espressionistiche, la visione splatter del fantasma di Banquo e l’allucinazione del sabba.

I piani della realtà sfumano definitivamente nell’omaggio a Vampyr di Dreyer. La scena del sogno di Allan Gray è ripresa in una soggettiva dalla testa di Macbeth impalata e portata in trionfo. Polanski conosceva Vampyr, fra i modelli di Per favore, non mordermi sul collo. La citazione è carica di significato: Allan Gray sogna di essere morto, Macbeth lo è. Ma la soggettiva spinge a chiedersi cosa stiamo vedendo: forse la prosecuzione del sogno perverso di Macbeth? A che punto il desiderio piega e pervade la realtà? La cinefilia del film non si limita a Dreyer: c’è l’ombra di Ivan il terribile nella scena dell’incoronazione, nei primi piani del tiranno con sudditi e soldati sullo sfondo, nel profilo della corona sul volto di Lady Macbeth; c’è il Faust di Murnau nella visione profetica del sabba.

Nel Macbeth di Polanski il cinema non è un modo per guardare le proprie ossessioni ma solo per perdersi dentro di esse, come in un labirinto di specchi. Il farmaco che l’uomo deve darsi da solo forse esiste, ma Polanski non ci crede o non lo conosce. La storia si afferma sull’arte – pace Tarantino – ma solo piegata al desiderio: nel finale Donalbain, che fu storicamente re dopo Malcom, torna dalle streghe. Questo è l’unico vero tradimento a Shakespeare, il cui testo, anche se reso con naturalezza non teatrale, è seguito fedelmente. Il sigillo del regista sulla sua opera: la storia domina sulla finzione artistica e il finale positivo di Shakespeare è superato dal ciclico affermarsi del desiderio.